Codice Civile art. 2043 - Risarcimento per fatto illecito.Risarcimento per fatto illecito. [I]. Qualunque fatto doloso o colposo [1176], che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno [7, 10, 129-bis, 840, 844, 872 2, 935 2, 939 3, 948, 949, 1440, 1494 2, 2395, 2504-quater, 2600, 2818, 2947; 185 2, 198 c.p.; 22 ss. c.p.p.; 55, 60, 64 2, 96, 278 c.p.c.] 12.
[1] In tema di responsabilità per danno da prodotto difettoso v. art. 114 d.lg. 6 settembre 2005, n. 206; in tema di danno ambientale v. art. 300 d.lg. 3 aprile 2006, n. 152; in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile v. gli artt. 170-172 d.lg. 7 settembre 2005, n. 209. [2] Per la responsabilità civile della struttura e dell'esercente la professione sanitaria, v. art. 7 l. 8 marzo 2017, n. 24. InquadramentoL'accettazione del paziente in una struttura, sia essa pubblica o privata ma deputata a fornire assistenza sanitaria-ospedaliera, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale comporta la conclusione di un contratto (tra paziente e struttura) di prestazione d'opera professionale atipico di spedalità (c.d. contratto di spedalità o di assistenza sanitaria). Trattasi di contratto sinallagmatico e con effetti protettivi, fonte di eventuale responsabilità contrattuale della struttura nei confronti del paziente anche per danni cagionati da condotta colposa del personale sanitario in essa operante (ex plurimis, Cass. III, n. 7768/2016). Tale natura (contrattuale) può caratterizzare l'eventuale responsabilità del medico anche nel caso in cui non sia stipulato un tale contratto tra lui ed il paziente, in forza si «contatto sociale qualificato» tra medico e paziente, anche se fortuito od occasionale. La l. 8 marzo 2017, n. 24, recante «Disposizioni in tema di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie» (in vigore dall'1 aprile 2017), introduce profili di novità in tema di responsabilità medica. L'art. 7 della citata legge, facendo proprio il consolidato orientamento di legittimità in materia, dispone, al comma 1, che la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell'adempimento della propria obbligazione si avvalga dell'opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c, delle loro condotte dolose o colpose. Il terzo comma dispone invece che «l'esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile salvo che abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente. Con particolare riferimento all'accertamento della colpa professionale, il criterio di cui all'art. 1176 comma 2 c.c. implica che la nozione di professionista medio, secondo il costante insegnamento della Suprema Corte, sottende un professionista «bravo, serio, preparato, zelante ed efficiente», cioè non già il professionista mediocre bensì quello di elevata professionalità (ex plurimis, Cass. III, n. 24213/2015). L'art. 5 della l. n. 24/2017, in particolare, dispone che gli esercenti le professioni sanitarie, nell'esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida. Con particolare riferimento all'accertamento del nesso causale (materiale), il giudizio civile, anche in tema di responsabilità medica, non è informato al «principio fondamentale» in base al quale «solo una certezza o un'alta percentuale probabilistica» possono fondare la responsabilità, bensì al criterio, che si fonda sulla relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, della «preponderanza dell'evidenza» o «del più probabile che non» (anche detto della «probabilità relativa»), ispirato alla regola della «normalità causale» (ex plurimis: Cass. III, n. 7768/2016). Sotto il profilo del riparto dell'onere probatorio, sul presupposto della natura contrattuale della responsabilità medica (tanto della struttura quanto del sanitario), il paziente dovrà provare non solo il titolo (contrattuale o da contatto sociale) ed il danno ma anche l'inadempimento qualificato del professionista, cioè causalmente idoneo alla produzione del danno, incombendo in capo al convenuto l'onere di provare di aver adempiuto ovvero la non imputabilità dell'inadempimento oppure che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno Cass. S.U., n. 577/2008). Sul tema è intervenuta la recente Cass. III, n. 13510/2022 la quale ha precisato che in tema di responsabilità sanitaria per attività medico-chirurgica, il cosiddetto “soft law” delle linee guida – pur non avendo la valenza di norma dell'ordinamento – costituisce espressione di parametri per l'accertamento della colpa medica, che contribuiscono alla corretta sussunzione della fattispecie concreta in quella legale disciplinata da clausole generali, quali quelle contenute negli artt. 1218 e 2043 c.c. Natura del rapporto tra struttura sanitaria, medico in essa operante e pazientePer costante ed ormai pacifica giurisprudenza, l'accettazione del paziente in una struttura, sia essa pubblica o privata ma deputata a fornire assistenza sanitaria-ospedaliera, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale comporta la conclusione di un contratto (tra paziente e struttura) di prestazione d'opera professionale atipico di spedalità (c.d. contratto di spedalità o di assistenza sanitaria). Trattasi di contratto sinallagmatico e con effetti protettivi, fonte di eventuale responsabilità contrattuale della struttura nei confronti del paziente anche per danni cagionati da condotta colposa del personale sanitario in essa operante. A fronte dell'obbligazione nascente in capo al paziente, avente ad oggetto il pagamento del corrispettivo (che può essere adempiuto direttamente ovvero anche da un terzo, quale il Servizio sanitario nazionale o altro ente, in ipotesi assicurativo o assistenziale), sorge in capo alla struttura un'obbligazione avente ad oggetto prestazioni principali ed accessorie. La principale è quella sanitaria e ad essa accedono le prestazioni funzionali al suo esatto adempimento, tra le quali la messa a disposizione non solo del medico e del personale paramedico ma anche di farmaci, strumenti, attrezzature ed altri materiali accessori (anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze). Altre prestazioni, altrettanto accessorie (proprie di altri contratti tipici o atipico), sono quelle aventi ad oggetto servizi alberghieri, di ristorazione oltre che di deposito e trasporto. Sicché, l'obbligo di prestazione da parte della struttura implica anche il mettere a disposizione del paziente il proprio apparato organizzativo e strumentale per garantire la migliore e corretta assistenza (ex plurimis, per la natura contrattuale dei rapporti tra struttura sanitaria e paziente e per la relativa responsabilità: Cass. III, n. 7768/2016; Cass. III, n. 21090/2015; Cass. III, n. 18610/2015; con particolare riferimento alla responsabilità della struttura per danno da emotrasfusione ed in merito alle conseguenze circa la disciplina del riparto dell'onere probatorio, Cass. S.U., n. 577/2008; Cass. III, n. 13953/2007; Cass. III, n. 1698/2006; con particolare riferimento alla responsabilità della struttura, a nulla rilevando che l'eventuale responsabilità concorrente del medico di fiducia del paziente sia ancora sub iudice in altro separato processo, nel caso di inadempienza consistita nell'insufficienza delle apparecchiature a disposizione per affrontare l'emergenza – sindrome asfittica del neonato – e nel ritardo, ad opera del personale ausiliario, nel trasferimento del neonato in un centro ospedaliero attrezzato, Cass.S.U., n. 9556/2002). La dottrina evidenzia come nell'attualità il sistema sanitario sia articolato tanto che il rapporto tra struttura sanitaria e paziente va ben oltre la mera prestazione sanitaria generando anche obblighi di protezione scaturente da una diversa e moderna concezione della responsabilità, da intendersi, difatti, nel più ampio senso di responsabilità medico-sanitaria (Franzoni, 589). L'opera intellettuale medica rimane però pur sempre il nucleo fondamentale e qualificante della prestazione sanitaria, anche nel caso in cui essa si svolga all'interno di una struttura sanitaria ed i rapporti tra quest'ultima e paziente oltre che tra questi ed il medico operante all'interno della prima, pur se distinti, sono tra loro connessi (Castronovo, 2006, 480). La configurazione in termini contrattuali del rapporto tra paziente e struttura sanitaria sussiste, quindi, a prescindere che trattasi di struttura privata o pubblica in quanto, a livello normativo, sono sostanzialmente identici gli obblighi dei due tipi di strutture verso il fruitore dei servizi. Sicché, con riferimento alla responsabilità civile per c.d. responsabilità medica, la giurisprudenza ne argomenta l'equiparazione anche in ragione della circostanza per la quale trattasi di violazioni tali da incidere sul bene salute, quale diritto fondamentale costituzionalmente tutelato (art. 32 Cost.) senza possibilità di limitazioni di responsabilità a seconda della natura pubblica o privata della struttura (ex plurimis, Cass. S.U., n. 577/2008, cit.) La responsabilità della struttura sanitaria per contratto di spedalità origina dall'obbligo di erogare la prestazione con massima diligenza e prudenza, con conseguente osservanza non solo della normativa in materia di dotazione e strutture (anche) di emergenza ma anche della concreta tenuta, tramite i propri operatori, di condotte adeguate alle condizioni del paziente, ancorché, in ipotesi, disperate, in rapporto anche alle precarie e limitate disponibilità di risorse o di mezzi, pur conformi alle dotazioni ed alle istruzioni previste dalla normativa vigente, dovendo adottare le determinazioni più idonee scongiurare l'esito infausto. In applicazione del suddetto principio Cass. III, n. 21090/2015, cit., ha ritenuto esente da critiche la sentenza di merito che aveva riconosciuto la responsabilità della struttura in un caso nel quale, pur essendo giunto il paziente in condizioni gravi, l'esito infausto era riconducibile al ritardo nella comunicazione dei decisivi dati di laboratorio e nell'esecuzione del conseguente intervento chirurgico oltre che nelle modalità di manipolazione del già devastato bacino del paziente. Nella specie era stato ritenuto che un'eventuale conformità della non adeguata scorta di sangue alle previsioni normative non avrebbe potuto esentare la struttura dall'immediata richiesta di altro sangue a strutture più dotate ovvero dall'immediato trasferimento del paziente in altra e più attrezzata struttura. Quanto innanzi argomentato esclude la possibilità da parte della struttura sanitaria, che esegua un intervento chirurgico d'urgenza, di invocare lo stato di necessità di cui all'art. 2045 c.c. Esso difatti implica l'elemento dell'imprevedibilità della situazione d'emergenza, la cui programmazione rientra invece nei compiti di ogni struttura sanitaria e che, con particolare riguardo alle risorse ematiche, deve tradursi in un approvvigionamento preventivo o nella predeterminazione delle modalità per un rifornimento aggiuntivo straordinario, gravando peraltro in capo alla struttura la prova di aver eseguito, sul sangue pur somministrato in via d'urgenza, tutti i controlli previsti all'epoca dei fatti (Cass. III, n. 13919/2016, con riferimento ad un caso nel quale il paziente aveva contratto epatite post-trasfusionale in conseguenza di emotrasfusioni alle quali era stato sottoposto con particolare urgenza, essendo giunto in ospedale con una ferita da arma da fuoco e con una grave emorragia in corso). Ciò posto, precisa la Suprema Corte, la struttura presso la quale il paziente risulti ricoverato risponde direttamente, cioè per fatto proprio ex art. 1218 c.c., dell'inadempimento delle prestazioni a suo carico (tra le quali quelle accessorie di cui innanzi) nonché per fatto altrui, ex art. 1228 c.c., dell'inadempimento della prestazione principale di natura medico-professionale ed in particolare della condotta colposa dei sanitari (ex plurimis, tra le più recenti, Cass. III. n. 7768/2016, cit., e Cass. III, n. 1620/2012). Tale impostazione è poi recepita dalla recente l. 8 marzo 2017, n. 24 recante disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita nonché, in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie (infra). È però necessario, per la configurabilità della responsabilità di cui innanzi, che sussista un collegamento tra la prestazione effettuata dal sanitario e l'organizzazione aziendale, a prescindere dall'esistenza di un rapporto di lavoro alle dipendenze della stessa e, più in generale, dall'esistenza di un rapporto contrattuale che leghi il sanitario alla struttura, atteso che la diretta gestione della struttura sanitaria identifica il soggetto titolare del rapporto con il paziente. Quest'ultimo, inoltre, è estraneo alle scelte organizzative della struttura (nel senso che non può influire su esse pur nel caso in cui eventualmente le conosca), tra le quali quella di far operare personale non dipendente, in ipotesi proveniente da altra struttura sanitaria, non potendo quindi essa comportare conseguenze pregiudizievoli per il paziente. In applicazione del detto principio Cass. III. n. 7768/2016, cit., ha confermato la sentenza impugnata che, in relazione alla condotta di due medici, pur dipendenti di una Azienda Sanitaria Locale, aveva ravvisato la responsabilità della struttura privata presso i cui locali risultava ospitato il «presidio di aiuto materno» ove i sanitari avevano operato, ciò sul presupposto che la struttura era tenuta a garantire alla gestante, per il semplice fatto del di lei ricovero, la migliore e corretta assistenza, non solo sotto forma di prestazioni di natura alberghiera ma anche di messa a disposizione del proprio apparato organizzativo. Nel casso di cui innanzi, la Suprema Corte, ha altresì considerato creditori/danneggiati anche il neonato oltre che il di lui padre nonché marito dalla partoriente. L'inadempimento del professionista in relazione alla propria obbligazione, ai fini della conseguente responsabilità della struttura presso la quale opera il professionista (oltre che dello stesso medico), in applicazione dei principio di cui all'art. 1176, comma 2 c.c., deve essere valutato alla stregua del dovere di diligenza particolarmente qualificato inerente lo svolgimento della sua attività professionale e sempre che sia configurabile un nesso causale tra il suo comportamento, anche omissivo, e il pregiudizio subito da un paziente. Attraverso un criterio necessariamente probabilistico accertare se l'opera del professionista, qualora correttamente e prontamente svolta, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il danno verificatosi (ex plurimis, Cass. III, n. 19133/2004, ed in precedenza, in senso conforma, Cass. III, n. 4400/2004). La responsabilità della struttura per fatto del personale sanitario in essa comunque operante, non si argomenta in ragione di una sorta di culpa in eligendo o in vigilando, da ritenersi sussistente anche nel caso in cui il personale operante non sia dipendente della struttura, bensì in applicazione del principio, argomentabile exartt. 1218 e 2049 c.c., per il quale il debitore che nell'adempimento dell'obbligazione si avvalga dell'opera di terzi risponde anche dei fatti dolosi o colposi di questi. La responsabilità per fatto dell'ausiliario, come quella per fatti del preposto, difatti, prescinde da un contratto di lavoro subordinato intercorrente tra il debitore ed il soggetto del quale egli si avvalga per l'adempimento, più in generale da un rapporto contrattuale, essendo irrilevante, per i fini di cui innanzi, la natura del rapporto intercorrente tra loro. Per converso, rileva la circostanza in forza della quale il debitore si sia comunque avvalso dell'opera (nella specie professionale) del terzo nell'adempimento della propria obbligazione, ponendo la detta opera a disposizione del creditore in modo che essa risulti inserita nel procedimento esecutivo del rapporto obbligatorio. La responsabilità della struttura, quindi, prescinde dalla colpa, anche sub specie di culpa in eligendo, essendo di tipo oggettivo e fondandosi sul principio cuius commoda eius et incommoda e, più in particolare, sull'appropriazione o avvalimento dell'attività altrui per l'adempimento della propria obbligazione, comportante l'assunzione del rischio per i danni che ne derivino al creditore (c.d. criterio dell'assunzione del rischio). Quanto detto accade anche nel caso in cui il sanitario abbia effettuato un intervento di tipo diverso rispetto a quello originariamente concordato tra struttura e paziente, in ipotesi anche all'insaputa della stessa struttura debitrice, in ragione del sufficiente nesso di occasionalità necessaria (ex plurimis, Cass. III, n. 7768/2016, cit., e Cass. III, n. 18304/2014; si vedano altresì, in materia contrattuale, per il riferimento non alla responsabilità per colpa bensì all'assunzione del rischio per danni: nella materia dei viaggi turistici «tutto compreso», Cass. III, n. 22619/2012, la quale evidenzia l'irrilevanza della sussistenza di un rapporto contrattuale tra il debitore ed il terzo del quale il primo si sia avvalso per l'adempimento della propria obbligazione; Cass. III, n. 12833/2014, per il caso di danni subiti da minore affidato a centro estivo comunale per fatto del vigilante). L'articolo 1228 c.c., in forza del quale è estesa anche in ambito contrattuale la disciplina della responsabilità per fatto degli ausiliari di cui all'art. 2049 c.c., postula, per la sua concreta applicabilità, l'esistenza di un danno causato dal fatto dell'ausiliario, l'esistenza di un rapporto tra ausiliario e committente (cd. rapporto di preposizione), e l'esistenza, infine, di una relazione di causalità ( rectius , di occasionalità necessaria) tra il danno e l'esercizio delle incombenze dell'ausiliario. Le mansioni svolte devono quindi aver reso possibile o comunque agevolato il comportamento produttivo del danno (per il riferimento al nesso di occasionalità necessaria, più che a vero e proprio nesso eziologico, e per il significato di esso, si vedano, ancorché in settori differenti dalla responsabilità medica, ex plurimis, Cass. IV, n. 4951/2002, nonché Cass. III, n. 6756/2001, in materia di responsabilità della banca). Il fatto dell'ausiliario (nella specie il personale medico o paramedico) deve però essere colposo, affinché la struttura possa essere chiamata a rispondere di esso, nei suddetti termini ed a titolo di responsabilità oggettiva. L'adempimento del contratto di spedalità, con riguardo alle prestazioni di natura sanitaria, è difatti regolato dalle norme che disciplinano la corrispondente attività del medico nell'ambito del contratto di prestazione d'opera professionale (ancorché, in ipotesi, nascente da «contatto sociale»), con la conseguenza che la struttura risponde dei danni derivati al paziente da trattamenti sanitari praticatigli con colpa, alla stregua delle norme di cui agli artt. 1176 e 2236 c.c. Il positivo accertamento della responsabilità dell'istituto postula quindi, come chiarito dalla Suprema Corte, pur sempre la colpa del medico esecutore dell'attività che si assume illecita, pur trattandosi di responsabilità contrattuale, con tutte le conseguenze che ne derivano in tema di onere della prova (dovendo il paziente allegare l'inadempimento qualificato). In assenza della colpa dell'ausiliario, difatti, non è ravvisabile alcuna responsabilità contrattuale del committente per fatto illecito dei suoi preposti in quanto gli artt. 1218 e 2049 c.c. presuppongono comunque un illecito colpevole dell'autore, fatta salva l'operatività di presunzioni legali in ordine al suo concreto accertamento (ex plurimis, Cass. III, n. 12362/2006; si veda anche Cass. III, n. 6438/2015, per la quale, in materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, il primario ospedaliero, in ferie al momento del contatto sociale, del ricovero e dell'intervento, non può essere chiamato a rispondere delle lesioni subite da un paziente della struttura ospedaliera solo per il suo ruolo di dirigente, non essendo configurabile una sua responsabilità oggettiva). In ragione del descritto complesso ed atipico rapporto contrattuale tra struttura sanitaria e paziente la prima è autonomamente responsabile nei confronti del secondo anche laddove il danno subito risulti causalmente riconducibile non ad attività del medico in essa operante (dipendente o meno ovvero scelto dal paziente) bensì ad una inadempienza alle obbligazioni ad essa facenti capo in relazione all'insufficienza delle apparecchiature predisposte per affrontare prevedibili emergenze o complicazioni, ovvero al ritardo nel trasferimento del paziente presso un centro ospedaliero attrezzato. In applicazione del principio la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata, che, in riferimento ai danni neurologici riportati da un neonato in conseguenza di un parto prematuro, avevo escluso la responsabilità non solo del ginecologo e dei pediatri, per avere gli stessi praticato tutta l'assistenza possibile con i mezzi a disposizione, ma anche dell'Azienda Sanitaria Locale, pur essendo stato accertato che i rischi connessi al parto avrebbero reso opportuno il ricovero della gestante in una struttura meglio attrezzata (Cass. III, n. 10743/2009, in precedenza, Cass. S.U., n. 9556/2002, cit.). L'esplicito riferimento alla responsabilità della struttura anche per le condotte dolose o colpose del personale sanitario in essa operante è ora prevista legislativamente dall'art. 7 della l. n. 24/2017, recante disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie. Ai sensi della detta norma, difatti, la struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata che, nell'adempimento della propria obbligazione, si avvalga di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura, risponde, ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c., delle loro condotte dolose o colpose. Tale responsabilità sussiste anche nelle ipotesi di prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero nell'ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nonché attraverso la telemedicina. L'articolo 7 citato, salda la responsabilità della struttura alle condotte dolose o colpose dell'esercente la professione sanitaria agli articoli 1218 e 1228 c.c. In ragione dell'utilizzata tecnica del rinvio, potrebbe ritenersi ancora valida la ricostruzione dottrinal-giurisprudenziale che muove dall'applicazione dell'art. 2049 c.c. (in forza dell'art. 1228 c.c.), con conseguente applicazione delle regole che governano tale responsabilità. La Suprema Corte ha di recente confermato ed ulteriormente specificato i principi di cui innanzi, anche circa la c.d. prova liberatoria, evidenziando che il contratto di ricovero produce, quale effetto naturale ex art. 1374 c.c., l'obbligo della struttura sanitaria di sorvegliare il paziente in modo adeguato rispetto alle sue condizioni, al fine di prevenire che questi possa causare danni a terzi o subirne; la prova liberatoria dell'impossibilità oggettiva non imputabile offerta dal danneggiante, richiesta dall'art. 1218 c.c., va verificata sul piano della non esigibilità di un comportamento diverso da quello in concreto tenuto. In applicazione del principio Cass. III, n. 25288/2020 ha cassato con rinvio la sentenza impugnata che aveva fondato la responsabilità degli operatori sanitari della struttura sul mero fatto dell'autolesione provocatasi da una paziente con problemi psichici che le misure di contenzione adottate avrebbero dovuto scongiurare, senza interrogarsi su quali misure diverse, in considerazione dello stato gestazionale della paziente e dell'impossibilità di praticare trattamenti farmacologici, si sarebbero dovute esigere in concreto. Nel caso di richiesta di risarcimento danni avanzata dagli stretti congiunti di un paziente con problemi psichici ricoverato presso una struttura sanitaria, qualora essi facciano però valere il danno patito iure proprio da perdita del rapporto parentale, in particolare nel caso in cui l'iniziativa autolesionistica del malato si risolva in un atto suicidario portato a compimento a causa dell'omessa vigilanza, deve escludersi che l'azione esercitata sia riconducibile alla previsione dell'art. 1218 c.c., poiché il rapporto contrattuale è intercorso solo tra la menzionata struttura ed il ricoverato; ne consegue che l'ambito risarcitorio nel quale la domandadeve essere inquadrata è necessariamente di natura extracontrattuale, atteso che questi ultimi non possono essere nella specie qualificati "terzi protetti dal contratto", potendo postularsi l'efficacia protettiva verso terzi del contratto concluso tra il nosocomio ed il paziente esclusivamente ove l'interesse del quale tali terzi siano portatori risulti anch'esso strettamente connesso a quello regolato già sul piano della programmazione negoziale (Cass. III, n. 14258/2020). A carico del personale di un centro di assistenza per lo svolgimento di attività di terapia occupazionale sussiste l'obbligo di sorvegliare l'assistito in modo adeguato alle sue condizioni, al fine di prevenire che questi possa causare danni a terzi o subirne; la prova liberatoria dell'impossibilità oggettiva non imputabile, richiesta dall'art. 1218 c.c., prosegue Cass. III, n. 9714/2020, non può essere fornita deducendo l'asserita eccezionalità di quelle ipotesi di rischio alle quali si intende provvedere proprio attraverso la prestazione contrattuale. Nella specie l'ordinanza da ultimo citata ha confermato la sentenza impugnata che aveva ravvisato la responsabilità delle operatrici socio-assistenziali della struttura per il decesso di un soggetto adulto, affetto da oligofrenia di grado elevato, rimasto vittima di soffocamento da ingestione di cibo mentre era affidato al centro. Cass. III, n. 22331/2014, parimenti, muove dall'assunto per il quale il contratto di ricovero produce, quale effetto naturale ex art. 1374 cod. civ., l'obbligo della struttura sanitaria di sorvegliare il paziente in modo adeguato rispetto alle sue condizioni, al fine di prevenire che questi possa causare danni a terzi o subirne, al fine però di chiarire che la circostanza che il paziente sia capace di intendere o di volere, ovvero il fatto che non sia soggetto ad alcun trattamento sanitario obbligatorio, non esclude il suddetto obbligo, ma può incidere unicamente sulle modalità del suo adempimento. È altresì configurabile la responsabilità della struttura sanitaria per i danni a sé provocati da un paziente in condizioni di disagio psichico, che si sia rivolto al pronto soccorso e sia stato lì lasciato solo in una stanza, affidato esclusivamente alla sorveglianza di un suo parente, atteso l'inadempimento della struttura stessa nel vigilare sulla sicurezza del soggetto in menomate condizioni di capacità di intendere e di volere, poiché l'ospedale è tenuto a spiegare un atteggiamento di protezione differenziato, a seconda della patologia lamentata dalla persona ricoverata, sin dalla fase di primo intervento (Cass. III, n. 10832/2014). Sempre in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, ma con particolare riferimento al riparto dell'onere probatorio, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l'onere di provare il nesso di causalità tra l'aggravamento della patologia (o l'insorgenza di una nuova malattia) e l'azione o l'omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare l'impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l'inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l'ordinaria diligenza (ex plurimis, tra le più recenti, Cass. III, n. 27606/2019). In applicazione di tale principio, Cass. III, n. 26700/2018 ha confermato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno proposta dalla paziente e dai suoi stretti congiunti, in relazione a un ictus cerebrale che aveva colpito la prima a seguito di un esame angiografico, sul rilievo che era mancata la prova, da parte degli attori, della riconducibilità eziologica della patologia insorta alla condotta dei sanitari, ed anzi la CTU espletata aveva evidenziato l'esistenza di diversi fattori, indipendenti dalla suddetta condotta, che avevano verosimilmente favorito l'evento lesivo. Cass. III, n. 18392/2017, invece, ha confermato la sentenza di merito, che aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno proposta dalla vedova di un paziente deceduto, per arresto cardiaco, in seguito ad un intervento chirurgico di asportazione della prostata cui era seguita un'emorragia, sul rilievo che la mancata dimostrazione, da parte dell'attrice, della riconducibilità eziologica dell'arresto cardiaco all'intervento chirurgico e all'emorragia insorta, escludeva in radice la configurabilità di un onere probatorio in capo alla struttura. Circa il nesso di causalità, invece, Cass. sez. III, n. 5487/2019 ha chiarito che l'accertamento del nesso causale va condotto attraverso una ricostruzione non atomistica della complessiva condotta omissiva della struttura sanitaria indicata dall'attore come idonea a cagionare l'evento, in modo che il singolo episodio sia considerato e valutato come inserito in una sequenza più ampia e coerente. Nella specie, la Suprema corte, ha cassato la sentenza che aveva operato una parcellizzazione dei singoli episodi dell'unitario contegno omissivo addebitato alla struttura, concentrandosi soltanto sull'ultimo episodio ed ignorando del tutto i due precedenti nonché le risultanze dell'elaborato peritale, predisposto in sede penale, senza valutare se, nell'insieme, tutti gli elementi unitariamente considerati fossero idonei all'accertamento del nesso causale tra l'omessa diagnosi di patologia cardiaca e l'intervenuto decesso dal paziente per attacco ischemico, secondo il principio del “più probabile che non”. L'applicazione, in forza dell'art. 1228 c.c., alla responsabilità contrattuale della norma che disciplina la responsabilità per fatto degli ausiliari, di cui all'art. 2049 c.c., porta a configurare la responsabilità della struttura sanitaria in termini di responsabilità oggettiva. Il fondamento della responsabilità per fatto degli ausiliari, anche nel caso di avvalimento da parte del debitore per eseguire la propria prestazione, è difatti ravvisabile nel principio in forza del quale chi si appropria dell'attività altrui per i propri fini assume su di sé anche il rischio delle conseguenze dannose di tale attività (per il fondamento della responsabilità ex art. 2049 c.c. si veda, per tutti, Bianca, 2012, 68). Proprio la ricostruzione di cui innanzi, in termini di responsabilità oggettiva per fatto dell'ausiliario nell'adempimento dell'obbligazione contrattuale, e le argomentazioni logico-giuridiche che la supportano escludono che possa rilevare in senso contrario, rispetto alla responsabilità della struttura, la circostanza per la quale il sanitario risulti essere anche «di fiducia» dello stesso paziente o, comunque, dal medesimo scelto. Il creditore compie difatti una scelta nell'ambito del personale rientrante nell'organizzazione del debitore (o delle persone da lui indicate) del quale questi si «avvale» per l'esecuzione della prestazione, sempre che l'attività non si svolga quindi al di fuori dei poteri di ingerenza della struttura e, quindi, di determinazione e di controllo dell'operato del sanitario (ex plurimis, Cass. III, n. 18610/2015, cit.). La Suprema Corte, nel 2015, ha in particolare ritenuto responsabile, ex art. 1228 c.c., l'Azienda Sanitaria Locale del fatto illecito commesso dal medico generico, con essa convenzionato, nell'esecuzione di prestazioni curative comprese tra quelle assicurate e garantite dal Servizio sanitario nazionale in base ai livelli stabiliti dalla legge (Cass. III, n. 6243/2015). Sempre in applicazione del principio di cui innanzi, in fattispecie relativa a parto gemellare in seguito al quale una neonata aveva riportato encefalopatia da asfissia secondaria per sofferenza fetale, Cass. III, n. 1698/2006, cit., ha cassato la sentenza di merito che aveva escluso la responsabilità della casa di cura, pur avendo rilevato l'omessa effettuazione di idonei controlli, quali il monitoraggio Ctg, all'ingresso in clinica della partoriente e la circostanza che l'ostetrica in servizio presso la clinica aveva ascoltato il battito di un solo feto senza sollecitare interventi medici o ulteriori. Parimenti, la Suprema Corte ha confermato la sentenza impugnata con la quale era stata affermata la responsabilità solidale con il chirurgo della società titolare della casa di cura, nella cui struttura era stato praticato ad una paziente l'intervento operatorio di liposuzione agli arti inferiori, al quale aveva fatto seguito un'infezione dannosa per la degente. Nella specie il chirurgo non svolgeva attività professionale alle dipendenze della struttura e la clinica aveva fornito soltanto le attrezzature ed i servizi occorrenti per l'intervento, ad esclusione proprio della sonda utilizzata dalla quale si era propagata l'infezione, e nonostante l'aver agito i dipendenti della struttura sotto l'esclusiva sorveglianza del medico operatore, attuandone le disposizioni loro impartite (Cass. III, n. 13953/2007, cit.). Con particolare riferimento alle «infezioni nosocomiali», Cass. sez. III, n. 6386/2023, evidenzia che l'accertamento della responsabilità della struttura sanitaria dev'essere effettuato sulla base dei criteri temporale (relativo al numero di giorni trascorsi dopo le dimissioni dall'ospedale prima della contrazione della patologia), topografico (correlato all'insorgenza dell'infezione nel sito chirurgico interessato dall'intervento, in assenza di patologie preesistenti e di cause sopravvenute eziologicamente rilevanti, da valutarsi secondo il criterio della cd. probabilità prevalente) e clinico (in ragione del quale, a seconda della specificità dell'infezione, dev'essere verificato quali misure di prevenzione sarebbe stato necessario adottare da parte della struttura sanitaria). Chiarito quanto innanzi,la citataCass. n. 6386/2023, seguita daCass. sez. III, n. 16900/2023, sul punto prosegue altresì evidenziando che la responsabilità della struttura sanitaria non ha natura oggettiva, sicché, a fronte della prova presuntiva, gravante sul paziente, della contrazione dell'infezione in ambito ospedaliero, la struttura può fornire la prova liberatoria di aver adottato tutte le misure utili alla prevenzione delle stesse, consistente nell'indicazione: a) dei protocolli relativi alla disinfezione, disinfestazione e sterilizzazione di ambienti e materiali; b) delle modalità di raccolta, lavaggio e disinfezione della biancheria; c) delle forme di smaltimento dei rifiuti solidi e dei liquami; d) delle caratteristiche della mensa e degli strumenti di distribuzione di cibi e bevande; e) delle modalità di preparazione, conservazione ed uso dei disinfettanti; f) della qualità dell'aria e degli impianti di condizionamento; g) dell'avvenuta attivazione di un sistema di sorveglianza e di notifica; h) dei criteri di controllo e di limitazione dell'accesso ai visitatori; i) delle procedure di controllo degli infortuni e della malattie del personale e delle profilassi vaccinali; j) del rapporto numerico tra personale e degenti; k) della sorveglianza basata sui dati microbiologici di laboratorio; l) della redazione di un report da parte delle direzioni dei reparti, da comunicarsi alle direzioni sanitarie al fine di monitorare i germi patogeni-sentinella; m) dell'orario delle effettiva esecuzione delle attività di prevenzione del rischio. La solidarietà (dal lato passivo) opera anche in senso inverso. Il medico operante all'interno di una clinica privata, ne sia o meno dipendente, ha difatti sempre il dovere di informare il paziente di eventuali carenze o limiti organizzativi o strutturali della clinica stessa (come, nella specie, la mancanza di una adeguata struttura di rianimazione neonatale). Ove ciò non faccia, egli risponde in solido con la clinica del danno patito dal paziente in conseguenza di quel «deficit» organizzativo o strutturale, ove possa presumersi che il paziente, se correttamente informato, si sarebbe avvalso di altra struttura sanitaria (Cass. III, n. 3847/2011). Il contratto di spedalità (anche detto contratto di ricovero, nei casi di effettivo ricovero presso la struttura), essendo a forma libera, può formarsi anche tacitamente e la relativa prova, come anche quella del suo contenuto, può essere desunta anche dal comportamento delle parti, sempre che non si tratti di prestazioni della struttura normalmente non effettuate o rese solamente a particolari condizioni (tra le quali, esemplificativamente, quella con esclusione del contributo a spese dello Stato), in ordine alle quali, per converso, va data la prova del relativo patto espresso. Circa la forma libera del contratto e le relative implicazioni probatorie, la Suprema Corte, proprio in applicazione del principio di cui innanzi ha escluso che l'accettazione in ospedale pubblico con diagnosi di «deviazione del setto nasale» al fine dell'effettuazione di un intervento di settorinoplastica e la relativa esecuzione da parte del medico consentissero, in assenza di prova, di ritenere sussistente un accordo relativo all'esecuzione di un intervento chirurgico – oltre che volto al recupero della funzionalità respiratoria anche – con «finalità estetica», essendo quest'ultima prestazione «notoriamente non prevista tra quelle eseguibili presso una struttura sanitaria pubblica a spese dello Stato», non potendo relativamente ad essa pertanto configurarsi la formazione tacita del consenso (Cass. III, n. 8826/2007). La responsabilità professionale della struttura sanitaria, per i danni cagionati al paziente dai medici ed in generale dal personale sanitario in essa operante, nel caso di ricovero o comunque di prestazione sanitaria eseguita in struttura gestita da un soggetto diverso dal proprietario (in ipotesi in forza di apposita convenzione), ricade sul soggetto che ha la diretta gestione della struttura. È con questi difatti che il paziente stipula il contratto di spedalità, per il solo fatto dell'accettazione nella struttura. La diretta gestione della struttura sanitaria costituisce quindi l'elemento idoneo ad individuare il soggetto titolare del rapporto instaurato con il paziente (oltre che con il sanitario in essa operante) ed a fondare la relativa responsabilità. In applicazione del detto principio, Cass. III, n. 11621/2011 ha ritenuto che del danno patito da un paziente in una clinica universitaria risponda quest'ultima, nonostante la sussistenza di una convenzione con la Regione e sempre che, per effetto di essa, l'amministrazione regionale non abbia assunto la gestione diretta della struttura sanitaria. Nella specie è stato in particolare escluso che il ricorso al cd. «avvalimento», adottato dalla Regione attraverso il convenzionamento con l'Università relativamente alle cliniche, abbia comportato la gestione diretta, da parte dell'ente avvalente, della struttura organizzativa di cui lo stesso si sia avvalso (si vedano anche, ex plurimis, Cass. I, n. 14646/2000 e Cass. III, n. 9198/1999, con riferimento all'individuazione del responsabile per il caso di danni cagionati a paziente da struttura – universitaria – convenzionata). Nel caso di un degente che aveva subito danni alla persona in conseguenza di un intervento chirurgico, eseguito all'interno di una clinica di proprietà di una università privata ma concessa in uso ad una università pubblica, nella quale operavano medici dipendenti di quest'ultima. Nella specie l'università pubblica, condannata a risarcire il danno del paziente, aveva impugnato la sentenza di merito che aveva rigettato la sua domanda di regresso, ex art. art. 2055 c.c., nei confronti dell'ente proprietario dell'ospedale e la Suprema Corte ha confermato la decisione di merito proprio in applicazione del principio di cui innanzi (Cass. III, n. 24791/2008).
Circa i rapporti tra responsabilità della casa di cura ed il consenso informato del paziente Cass. III, n. 1043/2019 ha chiarito che l'acquisizione di quest'ultimo, da parte del sanitario, costituisce prestazione altra e diversa rispetto a quella avente ad oggetto l'intervento terapeutico e si pone come strumentale rispetto a questa, sicché anche per essa la struttura sanitaria risponde a titolo contrattuale dei danni patiti dal paziente, per fatto proprio, ex art. 1218 c.c.,ove tali danni siano dipesi dall'inadeguatezza della struttura, ovvero per fatto altrui, ex art. 1228 c.c., ove siano dipesi dalla colpa dei sanitari di cui l'ospedale si avvale, e ciò anche quando l'operatore non sia un suo dipendente. Nel giudizio risarcitorio promosso dal paziente per inesatta esecuzione di intervento chirurgico, grava sulla struttura sanitaria la quale agisca nei confronti del chirurgo in regresso e in garanzia impropria per essere tenuta indenne dalle conseguenze della eventuale condanna, l'onere di provare che la causazione del danno sia ascrivibile, in via esclusiva, alla imperizia dell'operatore medico, non competendo a quest'ultimo la individuazione di precise cause di responsabilità della clinica tali da condurre al rigetto dell'azione di regresso (Cass. VI-III, n. 24167/2019). Connessa a quella di cui innanzi è poi la questione inerente i rapporti tra polizza stipulata dalla casa di cura ed assicurazione del medico. La prima, stipulata "per conto proprio" a copertura della responsabilità civile (tanto per il fatto proprio quanto per quello altrui), difatti, non può "operare in eccesso" rispetto all'assicurazione "personale" del medico che in essa operi, poiché i due contratti, che sono diversi e riguardano soggetti differenti, non coprono il medesimo rischio. In applicazione del principio Cass. III, n. 30314/2019ha cassato la sentenza di appello, affermando che presupposto necessario perché possano sussistere una coassicurazione, una assicurazione plurima od una copertura "a secondo rischio" è proprio l'identità del rischio coperto. In tema di responsabilità conseguente alla sperimentazione di farmaci, Cass. III, n. 10348/2021 ha chiarito che la casa farmaceutica promotrice della sperimentazione, la quale abbia fornito il farmaco ad una struttura sanitaria, perché lo sperimentasse sui suoi pazienti a mezzo dei propri medici, risponde a titolo contrattuale dei danni sofferti dai soggetti cui sia stato effettivamente somministrato il farmaco, a causa di un errore dei medici "sperimentatori", soltanto nell'ipotesi in cui, sulla base della concreta conformazione dell'accordo di sperimentazione, debba ritenersi che essa si sia personalmente obbligata verso i destinatari della sperimentazione, sicché la struttura ospedaliera e i suoi dipendenti abbiano assunto la qualità di ausiliari di cui la casa farmaceutica si sia avvalsa nell'adempimento, ai sensi dell'art. 1228 c.c.; al di fuori di questa ipotesi, essa può essere chiamata a rispondere solo a titolo di responsabilità extracontrattuale (in applicazione del criterio di imputazione speciale di cui all'art. 2050 c.c, o, eventualmente, di quello generale di cui all'art. 2043 c.c.), da accertarsi secondo le regole proprie della stessa. In applicazione del principio, la Suprema corte ha cassato la sentenza di merito che, senza accertare se la società promotrice avesse personalmente assunto una obbligazione verso il paziente reclutato nel programma sperimentale, aveva qualificato la responsabilità della prima verso il secondo in termini di responsabilità contrattuale, facendo riferimento ad un "contatto sociale" tra loro pacificamente insussistente, perché instaurato dal paziente esclusivamente con i medici sperimentatori . Natura del rapporto tra medico e paziente e della conseguente responsabilità medicaNell'ipotesi di conclusione di contratto di prestazione d'opera professionale stipulato tra medico e paziente, instaurandosi tra loro un rapporto di natura contrattuale, l'eventuale responsabilità sarebbe anche essa di natura contrattuale (per inadempimento o inesatto adempimento). Tale natura (contrattuale) può caratterizzare l'eventuale responsabilità del medico anche nel caso in cui non sia stipulato un tale contratto tra lui ed il paziente, in forza si «contatto sociale qualificato» tra medico e paziente. La responsabilità professionale del medico operante nella struttura sanitaria, dipendente o meno di essa, verso il paziente, per ormai pacifica giurisprudenza di legittimità, è difatti fondata sul «contatto sociale qualificato», instauratosi tra loro, essendo il medico chiamato ad adempiere nei confronti del paziente la prestazione convenuta da quest'ultimo con la struttura sanitaria. Il detto «contatto» nella specie è «qualificato» in forza della posizione professionale del medico esercente professione c.d. protetta, il cui esercizio necessita di speciale abilitazione incidendo sulla salute, qual bene giuridico di rango costituzionale (art. 32 Cost.). Esso, che determina in capo al paziente uno speciale affidamento, genera un rapporto che si modella sul rapporto scaturente da un contratto di prestazione d'opera professionale, in forza del quale il medico è tenuto all'esercizio della propria attività nell'ambito dell'ente con il quale il paziente ha stipulato il contratto di spedalità. Pur mancando un'obbligazione contrattuale (invece sussistente nel caso di conclusione tra medico e paziente di contratto di prestazione d'opera professionale), l'affidamento ingenerato dal contatto sociale qualificato implica quindi che il medico sia tenuto alla diligente, perita e prudente esecuzione della prestazione professionale. All'attività del sanitario si ricollegano altresì obblighi comportamentali di varia natura, volti a proteggere e tutelare gli interessi emersi o esposti a pericolo in occasione del descritto «contatto» ed in ragione della prestazione medico-sanitaria eventualmente da eseguirsi. La violazione dei detti obblighi è idonea a far sorgere in capo al sanitario una responsabilità a titolo contrattuale (da contatto sociale), ex art. 1218 c.c., trattandosi non di violazione di doveri generici della vita di relazione e sussistenti nei conforti della generalità dei consociali, in ipotesi fonte di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., bensì di obblighi specifici nascenti nei confronti di un particolare creditore ed in ragione di uno specifico e qualificato contatto sociale (ex plurimis, per la natura contrattuale, da «contatto sociale qualificato», della responsabilità del medico operante nell'ambito di una struttura sanitaria, per i conseguenti obblighi di protezione oltre che per la disciplina che ne consegue anche in termini di riparto dell'onere della prova e di prescrizione, tra le più recenti: Cass. III, n. 7768/2016, cit., Cass. III, n. 21090/2015, cit.; Cass. III, 6438/2015; Cass. III., n. 16394/2010, la quale ha però escluso che tra gli obblighi di protezione che assume il medico nei confronti del paziente, per effetto del «contatto sociale» tra il primo ed il secondo, rientri quello di garantire un determinato risultato della prestazione sanitaria, a meno che il paziente – sul quale incombe il relativo onere – dimostri l'espressa assunzione della garanzia del risultato da parte del medico; Cass. S.U. , n. 577/2008, Cass. III, n. 24791/2008, cit.; Cass. III, n. 8826/2007, cit.; con riferimento alla natura contrattuale della responsabilità non solo dell'ospedale ma anche – da contatto sociale qualificato – del medico dipendente, Cass. III, n. 9085/2006; più risalente ma con argomentazioni tali da fondare le basi della futura evoluzione giurisprudenziale, con particolare riferimento alla responsabilità professionale – contrattuale da «contatto sociale qualificato» – nei confronti del paziente del medico dipendente dal Servizio sanitario, Cass. III, n. 589/1999). Autorevole dottrina fa riferimento al «contatto sociale» funzionale, in quanto volto ad uno specifico fine, ove è la stessa qualificazione professionale del medico fonte di affidamento da parte dei soggetti che ne vengono a contatto. Proprio dal detto affidamento, in combinato con il principio di buona fede, nascerebbero obblighi di conservazione dell'altrui sfera giuridica tali da caratterizzare l'eventuale responsabilità in termini non aquiliani ed attribuendole natura contrattuale (Castronovo, 2006, 482) ovvero collocandola in una zona di confine tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale (Lipari, 194). L'elaborazione dottrinal-giurisprudenziale italiana della responsabilità da contatto sociale evidenzia come essa stessa si sia resa autonoma rispetto all'originaria elaborazione in Germania, così conferendo forma giuridica a rapporti differenti da quelli di natura precontrattuale ma pur sempre caratterizzati da un affidamento reciproco tra le parti, generato dalla qualificazione giuridica di una delle parti, ove la buona fede è fonte di obblighi di protezione la cui violazione iscrive la relativa responsabilità nell'area contrattuale (Castronovo, 2015, 131). Il contenuto dell'obbligazione nascente in capo al medico, dal contratto o dal «contatto», dunque, non si identifica nella mera protezione del paziente ma nella prestazione che si caratterizza come prestazione d'opera intellettuale (di tipo professionale). In tali termini la giurisprudenza attuale, anche accogliendo prospettazioni di attenta dottrina, si affranca dal concetto di obbligazione (di protezione) senza prestazione che, invece, perlomeno secondo parte della dottrina, sembrerebbe aver segnato l'approdo nella giurisprudenza di legittimità della teoria del contatto sociale qualificato, con particolare riferimento alla responsabilità medica, riconducibile a Cass. III, n. 589/1999. Per la citata storica sentenza del 1999 la responsabilità del medico dipendente dal Servizio sanitario (pubblico) confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul «contatto sociale», ha natura contrattuale, sicché, relativamente a tale responsabilità i regimi della ripartizione dell'onere della prova, del grado della colpa e della prescrizione sono quelli tipici delle obbligazioni da contratto d'opera intellettuale professionale. In particolare, la Suprema Corte, ha confermato che tra la struttura ospedaliera ed il paziente si instaura un rapporto contrattuale (contratto atipico di spedalità), argomenta dall'assunto per il quale tra il medico (dipendente) che opera nella struttura ed il paziente sussiste un rapporto giuridico tale da non esaurirsi nella fattispecie di cui all'art. 2043 c.c., disciplinante le ipotesi nelle quali tra danneggiante e danneggiato non esista uno specifico rapporto e fondata sul generico dovere del neminem laedere. Per converso, tra paziente e medico si instaura un rapporto giuridico particolare, essendo il secondo non un quisque de populo, tenuto all'obbligo di non danneggiare gli altri consociati (gravante su ogni soggetto), bensì obbligato, in virtù di precise disposizioni di legge nonché del contratto stipulato con l'azienda ospedaliera, a tutelare la salute del paziente e ad operare affinché avvenga la guarigione. Trattandosi di soggetto, il medico, che esercita una professione c.d. protetta, per la quale necessita peraltro una speciale abilitazione in quanto incidente su interessi costituzionalmente garantiti (quale la salute ex art. 32 Cost.), la coscienza sociale, prima ancora che l'ordinamento giuridico, non si limita a chiedere un non facere, e cioè il puro rispetto della sfera giuridica di colui che gli si rivolge fidando nella sua professionalità, ma quel facere nel quale si manifesta la perizia che ne deve contrassegnare l'attività in ogni momento. Sicché, secondo questo primo approdo, come detto ormai ulteriormente arricchito e «chiarito» dall'attuale concorde giurisprudenza di legittimità, dal contatto sociale qualificato tra medico ospedaliero e paziente nascerebbe un'obbligazione senza prestazione, ai confini tra contratto e torto (Cass. III, n. 589/1999, cit.), la quale precisa altresì che l'esistenza di un contratto tra medico e paziente può rilevare al fine di stabilire se il medico sia obbligato alla prestazione della sua attività sanitaria, salve le ipotesi in cui detta attività sia obbligatoria per legge, altrimenti il paziente non potrà pretendere la prestazione, ma se il medico in ogni caso interviene, ad esempio perché a tanto tenuto nei confronti dell'ente ospedaliero, l'esercizio della sua attività sanitaria non potrà essere differente nel contenuto da quello che abbia come fonte un comune contratto tra paziente e medico. L'attuale giurisprudenza, quindi, pur muovendo dal fondamentale arresto di legittimità del 1999, si affranca dalla teorizzazione dell'obbligazione senza prestazione, in quanto, come detto, dal «contatto sociale qualificato» tra medico e paziente nascerebbe in capo al primo, in luogo di meri obblighi di protezione, l'obbligazione tipica delle prestazioni d'opera professionale, e con essa anche altri obblighi comportamentali di varia natura, volti a proteggere e tutelare gli interessi emersi o esposti a pericolo in occasione del descritto «contatto». Ciò ha scongiurato il pericolo di limitare la responsabilità del medico (oltre che della struttura ove esso abbia operato) ai soli casi di aggravamento dello stato morboso. Essa, difatti, è estesa, sussistendone tutti i presupposti caratterizzanti la responsabilità contrattuale, anche alle ipotesi di risultato anomalo o anormale dell'intervento chirurgico, in quanto non tale da produrre il miglioramento delle condizioni del paziente, invece costituente oggetto della prestazione cui il medico-specialista era tenuto, con conseguenze infauste in termini fisici o psicologici (ex plurimis, Cass. III, n. 8826/2007 cit.). Tale orientamento è stato di recente confermato ed ulteriormente sviluppato da Cass. III, n. 12597/2017. In presenza di un intervento operatorio che – sebbene eseguito in conformità alle leges artis e non determinativo di alcun peggioramento della condizione patologica del paziente – non abbia prodotto alcun risultato di tipo terapeutico, e ciò in ragione dell'omessa esecuzione degli interventi preparatori necessari al suo buon esito da parte della struttura sanitaria, nonché di quelli successivi di natura riabilitativa occorrenti al medesimo scopo, ricorre un inesatto adempimento della struttura per aver dato luogo ad un'ingerenza priva di utilità nella sfera psico-fisica del paziente, non giustificato dal consenso del paziente all'intervento (danno evento dell'inadempimento). Ad essa consegue un danno (conseguenza) di natura non patrimoniale ravvisabile sia nella limitazione del proprio agire, sofferta dal paziente per il tempo occorso per le fasi preparatori, di esecuzione e postoperatorie dell'intervento, sia nella sofferenza derivante tanto da tale limitazione quanto dalla successiva percezione della inutilità del trattamento subito. Potrebbero altresì aggiungersi danni (conseguenza) di natura patrimoniale, in ipotesi, in ragione di invalidità ricollegata a tali attività (nelle fasi preparatoria, di esecuzione e postoperatoria) oltre che derivanti dall'ingerenza inutilmente subita, siccome apprezzabile come “tempo perso” per intervenire risolutivamente. Di recente però la giurisprudenza di legittimità sembra sostanzialmente aver preso atto della circostanza per la quale la categoria del «contatto sociale qualificato» e, dunque, la relativa responsabilità (di natura contrattuale), così come attualmente elaborate dalla giurisprudenza italiana, sono estranea alla nozione di contratto secondo i canoni internazionali pattizi di cui alla Convenzione di Londra del 19 giugno 1951, n. 1335. La Suprema Corte ha statuito quanto innanzi in merito ad un'ipotesi di prospettato esonero da responsabilità sostitutiva, prevista a carico dello Stato ospitante per ogni evento dannoso provocato da atto, comportamento o fatto posto in essere da un soggetto civile o militare straniero nell'esercizio delle sue funzioni (ex art. VIII, paragrafo 5, della Convenzione di Londra del 19 giugno 1951, n. 1335). Il detto esonero, difatti, non opera allorché la richiesta di indennità trovi la sua ragione giustificativa nell'applicazione di un contratto, da intendere – secondo i canoni internazionali pattizi – come accordo bilaterale (o plurilaterale) su singole clausole, che vanno adempiute dalle parti contraenti. In forza di tale principio, è stata confermata la sentenza di merito che ha escluso che l'esonero da responsabilità potesse operare in favore dello Stato italiano, in relazione alla domanda risarcitoria da errato trattamento medico effettuato in Italia da una struttura sanitaria statunitense, proposta dal coniuge di un militare – e poi dipendente civile – della U.S. Navy, ritenendo estranea alla nozione di contratto, di cui alla norma summenzionata, il contratto da «contatto sociale» frutto di elaborazione giurisprudenziale (Cass. III, n. 7909/2014). L'attuale consolidato approdo giurisprudenziale, circa la responsabilità contrattuale da contatto sociale qualificato del medico, mostra di aver colto prospettazioni di attenta dottrina, critiche rispetto alla teorizzazione dell'obbligazione (quella di protezione) senza prestazione (attribuita a Cass. III, n. 589/1999, cit.), per la quale non sarebbe configurabile un'obbligazione medica senza prestazione, nascendo invece, dal «contatto», in capo al medico una vera obbligazione di prestazione (Di Majo, 1999, 4, 441-446). Si è difatti evidenziato che la ricostruzione operata dalla citata giurisprudenza del 1999 si distingue sia dalla «teoria dei rapporti contrattuali di fatto derivanti da contatti sociali» sia da quella degli «obblighi di protezione», pur sovente richiamandole. Le dette teorie si fondano sulla scissione tra l'obbligazione e la sua fonte (cioè tra il rapporto obbligatorio ed il su fatto costitutivo). Nei rapporti contrattuali di fatto il rapporto, in particolare, pur nascendo da un contatto sociale e non da un contratto, si modella secondo il contenuto di un contratto tipico, dando così vita ad un rapporto che, comunque, si riconduce ad un tipo contrattuale. Negli obblighi di protezione, invece, la detta scissione opera in senso opposto. La loro fonte normalmente è un contratto ma non coincidono con l'obbligazione tipica principale che sorge da esso bensì con obblighi distinti ed accessori, il cui fondamento viene ravvisato nella diligenza (Bianca, 4, 1990, 93) o nella buona fede (Di Majo, 1988, 316). Gli obblighi di protezione hanno ad oggetto gli interessi della controparte non specificati nel contratto ed in particolare la salvaguardia dei terzi (protetti) che hanno un rapporto qualificato con il creditore, di convivenza, di ospitalità o di servizio, e che la prestazione alla quale è tenuto il debitore espone a specifici rischi di danno. Nella iniziale teorizzazione giurisprudenziale (del 1999) della responsabilità da contatto sociale qualificato del medico operante all'interno di una struttura sanitaria, per converso, secondo la dottrina in esame, l'obbligazione che nasce dal «contatto» non si struttura alla stregua di quelle proprie di contratti tipici (differentemente dalla teoria dei rapporti contrattuali di fatto), sostanziandosi in obblighi di comportamento strumentali alla protezione degli interessi emersi in occasione del contatto sociale qualificato. Gli obblighi di protezione gravanti sul medico, peraltro, originano dal diretto contatto sociale tra medico e paziente (che dunque difficilmente potrebbe considerarsi «terzo protetto» dal contratto), per tutelare l'affidamento del secondo sull'attività professionale del primo, non trovando quindi origine nel contratto quali obblighi accessori da esso derivanti, differentemente dalla teoria degli obblighi di protezione. Le distinzioni di cui innanzi rilevano circa l'ambito della responsabilità professionale, in caso inadempimento, essendo differente il contenuto dell'obbligazione in base alle dette teorie (per le critiche alla ricostruzione giurisprudenziale del 1999 si veda Castronovo, 2006, 482, per il quale un affidamento si instaura direttamente tra medico, operante nella struttura sanitaria, e paziente anche nel caso in cui il primo non sia obbligato alla prestazione nei confronti del secondo, giustificato dalla qualità professionale del sanitario idonea a fondare una pretesa specifica di protezione in capo al paziente; per la teorizzazione dei rapporti contrattuali di fatto derivanti da contatti sociali si veda, ex plurimis, Haupt, 9, mentre per quella degli obblighi di protezione, Stoll, 25; per la ricostruzione delle critiche ai richiami giurisprudenziali alle due citate teorie dei rapporti contrattuali di fatto e degli obblighi di protezione, oltre che per la loro elaborazione, proprio con riferimento alla responsabilità contrattuale da contatto sociale del medico operante nella struttura sanitaria, si veda Spaziani, 5). Altra attenta dottrina, per converso, ritiene che con lo storico arresto giurisprudenziale del 1999 la Suprema Corte, nella sostanza, al di là del formale riferimento anche alla teoria dell'obbligazione senza prestazione, abbia evidenziato che dal contatto sociale qualificato nasca in capo al medico (pubblico dipendente o meno) non un semplice obbligo di non danneggiare il paziente né mero obbligo di protezione bensì un vero obbligo di prestazione, cioè di cura del paziente, alla stregua dell'obbligazione nascente da contratto di prestazione d'opera professionale (Gazzara, 92). Responsabilità professionale del medico da «contatto sociale qualificato, fortuito, occasionale o informale» La ricostruita natura contrattuale (da contatto sociale qualificato) della responsabilità del medico sussiste non solo nel caso di «contatto» tra medico e paziente all'interno di una struttura sanitaria-ospedaliera ma ogni volta che il medico intervenga ed eserciti la propria attività, pur prescindendo quindi da un concluso contratto di prestazione d'opera professionale con il paziente e da un contratto di spedalità tra paziente e struttura, rilevando anche il «contatto sociale» meramente fortuito, occasionale o informale intercorso tra medico e paziente. La rilevanza di detto contatto è ribadita di recente in materia di responsabilità professionale da Cass. III, n. 19670/2016 che, in continuità con consolidato orientamento, ha confermato il principio per il quale ogni intervento del medico non può avere un contenuto diverso da quello avente come fonte un comune contratto d'opera professionale. Ne consegue, dunque, cha anche il «contatto sociale» meramente fortuito ed informale intercorso tra medico e paziente è idoneo a fondare, sussistendone tutti i presupposti, la responsabilità professionale (di natura contrattuale). In applicazione di tale principio, la citata sentenza ha qualificato in termini di «contratto» il rapporto instauratosi a seguito del comportamento di un medico di base che, nel corso di un incontro occasionale con un suo assistito in procinto di partire per il Kenia, aveva suggerito una profilassi antimalarica, poi rivelatasi inefficace. Nella specie, in particolare, il Giudice di legittimità ha confermato la statuizione di merito di esclusione della responsabilità del medico per la morte dell'assistito, causata dalla malaria, ma solo in considerazione della aderenza della profilassi consigliata ai principi della buona pratica medica. Il principio di cui innanzi è altresì in linea con l'assunto, di portata ancora più generale, per il quale chi assume volontariamente un obbligo, ovvero inizia volontariamente l'esecuzione di una prestazione, ha il dovere di adempiere il primo o di eseguire la seconda con la correttezza e la diligenza prescritte dagli artt. 1175 e 1176 c.c., a nulla rilevando che la prestazione sia eseguita volontariamente ed a titolo gratuito. La specifica fattispecie portata all'attenzione di Cass. III, n. 18230/2014 riguardava la responsabilità di un medico anestesista fattosi carico volontariamente anche della gestione di un paziente nella fase del ricovero e della sua assistenza a domicilio nella fase post-operatoria. Sembra però opportuno evidenziare che, di recente, sembra in atto nella Suprema Corte la tendenza di chiarire in confini della c.d. «responsabilità da contatto sociale qualificato». Cass. I, n. 11642/2012, ancorché in ambito differente da quello della responsabilità medica, ha chiarito che la cosiddetta responsabilità «da contatto sociale», soggetta alle regole della responsabilità contrattuale pur in assenza d'un vincolo negoziale tra danneggiante e danneggiato, è configurabile non in ogni ipotesi in cui taluno, nell'eseguire un incarico conferitogli da altri, nuoccia a terzi, come conseguenza riflessa dell'attività così espletata, ma soltanto quando il danno sia derivato dalla violazione di una precisa regola di condotta, imposta dalla legge allo specifico fine di tutelare i terzi potenzialmente esposti ai rischi dell'attività svolta dal danneggiante, tanto più ove il fondamento normativo della responsabilità si individui nel riferimento dell'art. 1173 c.c. agli altri atti o fatti idonei a produrre obbligazioni in conformità dell'ordinamento giuridico. Coma detto, nella specie si trattava di ipotesi differente dalla responsabilità medica e la Suprema Corte, proprio in applicazione del principio, ha statuito che la responsabilità d'una società di consulenza, per erronea fissazione del prezzo di emissione delle nuove azioni in occasione di un aumento del capitale sociale (da liberare mediante conferimento in natura di azioni di altra società da acquisire), ha natura contrattuale nei confronti di chi le ha conferito l'incarico e natura extracontrattuale nei confronti dei terzi, non essendo configurabile rispetto a questi ultimi una «responsabilità da contatto sociale» della prima. Conseguenze della natura contrattuale della responsabilità (cenni)Ricondurre ipotesi come quelle di cui innanzi, caratterizzate da contratto di spedalità e da contatto sociale qualificato (in ipotesi, anche se fortuito, occasionale ed informale), intercorrete, tra medico e paziente, nell'ambito della responsabilità contrattuale ovviamente incide in merito al regime applicabile in ragione delle differenze tra la disciplina della responsabilità contrattuale e quella della responsabilità extracontrattuale. La responsabilità extracontrattuale difatti, presuppone, sul piano soggettivo, la capacità di intendere e di volere del danneggiante (art. 2046 c.c.), il debitore colposamente inadempiente gode della limitazione del risarcimento al danno prevedibile al tempo in cui è sorta l'obbligazione (art. 1225 c.c.) mentre il danneggiante aquiliano è tenuto a risarcire tutti i danni arrecati nell'ipotesi di illecito doloso ma anche colposo (argomentabile dall'art. 2056 c.c.). L'autore dell'illecito aquiliano gode altresì di un regime di riparto dell'onere probatorio più favorevole rispetto al debitore, dovendo il danneggiato aquiliano provare il fatto illecito e non dovendo il creditore provare l'inadempimento ma solo allegarlo (oltre che provare il titolo ed in nesso eziologico). Il creditore non ha l'onere di provare la colpa del debitore inadempiente, dovendo quest'ultimo provare il diligente, otre che perito e prudente, adempimento ovvero la causa esterna, mentre sul danneggiato aquiliano grave l'onere di provare la colpa dell'autore del fatto illecito (salve ipotesi di responsabilità per colpa presunta od oggettiva). Differente è, infine, il regime della prescrizione, cinque anni nel caso di diritto al risarcimento danni da fatto illecito, ex art. 2947 c.c., e dieci anni per il diritto al risarcimento del danno da inadempimento, ex art. 2946 c.c. (sulla distinzione dei due regimi, con particolare riferimento alla responsabilità professionale del medico, si veda, diffusamente, Spaziani, 2). Le (ancora) mobili frontiere della responsabilità medica: la c.d. legge BalduzziLa descritta e consolidata ricostruzione del rapporto tra medico e paziente, anche nel caso di assenza di un contratto di prestazione d'opera professionale tra i due direttamente stipulato, è stata messa in forse dall'art. 3 del d.l. 13 settembre 2012, n. 158, come modificato dalla l. 8 novembre 2012, n. 189 (di conversione), c.d. legge Balduzzi, successivamente abrogato dall'art. 6 della l. 8 marzo 2017, n. 24. Rubricato sotto il titolo «responsabilità professionale dell'esercente le professioni sanitarie», il citato art. 3 prevede (va), al primo comma, che «l'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo». Il dibattito che si è sviluppato in dottrina, incentrato principalmente sul secondo inciso della norma («in tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile»), è stato caratterizzato da opinioni contrapposte, rispecchiate nelle pronunce giurisprudenziali di merito note. Si è difatti parlato in dottrina di scompiglio, anche se piccolo, provocato dalla detta norma in merito al consolidato quadro dottrinal-giurisprudenziale relativo alla natura della responsabilità del medico (Castronovo, 2015, 159). Il richiamo esplicito all'art. 2043 c.c., contenuto nel secondo inciso della norma di cui innanzi, è stato oggetto di differenti interpretazioni nella giurisprudenza di merito oltre che di plurimi interventi della Suprema Corte. Nell'ambito della prima, in particolare si registrano sentenze che lo considerano un mero rinvio «atecnico» alla responsabilità professionale dell'esercente la professione sanitaria, che, quindi, rimarrebbe di natura contrattuale (Trib. Arezzo, 14 febbraio 2013 e Trib. Cremona, 19 settembre 2013). Sicché, precisano altre sentenze di merito, nessuna portata innovatrice deriverebbe dalla norma di cui innanzi in merito alla responsabilità civile del medico, in quanto il richiamo all'art. 2043 c.c., contenuto nel citato art. 3, andrebbe riferito solo al giudice penale per il caso di esercizio dell'azione civile in sede penale, mentre la responsabilità civile del medico andrebbe comunque ricondotta al disposto dell'art. 1218 c.c. in caso di inadempimento e/o inesatto adempimento dell'obbligazione «legale» gravante anche sul singolo operatore sanitario e che troverebbe fonte nella legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale, l. 23 dicembre 1978, n. 833 (Trib. Rovereto, 29 dicembre 2013). Il contrapposto orientamento di merito, per converso, ritiene trattasi di un intervento legislativo di portata interpretativa (ancorché in maniera implicita ed indiretta). Per esso il legislatore, al fine di ovviare alle conseguenze (anche economiche) della c.d. medicina difensiva, ha inteso chiarire che, in assenza di un contratto concluso con il paziente, la responsabilità del medico non andrebbe ricondotta nell'alveo della responsabilità contrattuale bensì in quella extracontrattuale (Trib. Varese, 29 dicembre 2012). Il legislatore del 2012, in sintesi, avrebbe dettato una norma che smentisce l'intera elaborazione giurisprudenziale precedente e l'art. 2043 c.c. sarebbe ora la norma a cui ricondurre sia la responsabilità del medico pubblico dipendente sia quella della struttura pubblica nella quale opera non essendo ipotizzabile un diverso regime di responsabilità del medico e della struttura. Per cui il citato art. 3 avrebbe cambiato il «diritto vivente» operando una scelta di campo del tutto chiara e congruente con la finalità di contenimento degli oneri risarcitori della sanità pubblica, con superamento della teoria della responsabilità (contrattuale) da contatto sociale qualificato del medico (Trib. Torino, 26 febbraio 2013). La giurisprudenza di legittimità si è pronunciata in merito alla possibile portata innovativa dell'art. 3 in esame, escludendola, per la prima volta nel 2013, chiarendo, ancorché in un obiter, che la materia della responsabilità civile segue le sue regole consolidate, anche per la c.d. responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e del medico, ancorché da contatto sociale, richiamando i punti fermi di cui agli arresti delle Sezioni Unite, in particolare di Cass. S.U., n. 577/2008, cit. (Cass. III. n. 4030/2013). Il citato art. 3 comma 1 avrebbe quindi escluso la responsabilità penale medica in caso di colpa lieve, nei casi in cui l'esercente l'attività sanitaria si sia attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, ma ciò non avrebbe eliso l'illecito civile, restando fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 c.c. che è clausola generale del neminem laedere, sia nel diritto positivo, sia con riguardo ai diritti umani inviolabili qual è la salute. La materia della responsabilità civile, conclude la Suprema Corte, segue, tuttavia, le sue regole consolidate e non solo per la responsabilità aquiliana del medico ma anche per quella cd. contrattuale del medico. Tale orientamento è ribadito nonché specificato nel 2014 dalla Suprema Corte, per la quale l'art. 3 in esame, nel prevedere che l'esercente la professione sanitaria, che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, non risponde penalmente per colpa lieve, fermo restando, in tali casi, l'obbligo di cui all'articolo 2043 c.c., non esprime alcuna opzione da parte del legislatore per la configurazione della responsabilità civile del sanitario come responsabilità necessariamente extracontrattuale. Il detto inciso intende difatti solo escludere, in tale ambito, l'irrilevanza della colpa lieve in forza del principio per il quale essa viene sempre in considerazione in materia di responsabilità aquiliana (Cass. III, n. 8940/2014). Con l'intervento in esame la Suprema Corte chiarisce in particolare che la menzionata disposizione, poiché omette di precisare in quali termini si riferisca all'esercente la professione sanitaria e concerne nel suo primo inciso solo la responsabilità penale, comporta che la norma dell'inciso successivo, quando dispone che resta comunque fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 c.c., deve essere interpretata in maniera conforma al principio lege aquilia et levissima culpa venit. Sicché, il legislatore si sarebbe solo preoccupato di escludere l'irrilevanza della colpa lieve anche in ambito di responsabilità extracontrattuale, non volendo esprimere un'opzione a favore di una qualificazione della responsabilità medica necessariamente come responsabilità extracontrattuale. Il detto intervento della Corte di Cassazione ha comunque destato perplessità nella giurisprudenza di merito nella quale, all'alba di esso, si è riproposto il conflitto nei chiari termini evidenziati da due sentenze, di segno diametralmente opposto, emesse dal tribunale di Milano nel 2014. Trib. Milano, I, n. 9693/2014, difatti, riconosce portata innovativa all'art. 3 più volte citato, come modificato dalla legge di conversione, nel senso di attribuire natura extracontrattuale alla responsabilità del medico operante all'interno di una struttura (pubblica o privata), con il quale il paziente non abbia concluso un contratto di prestazione d'opera professionale, non incidendo, invece, in merito alla responsabilità della struttura sanitaria, che, quindi, rimarrebbe di natura contrattuale. La sentenza in esame muove dall'inquadramento della responsabilità medica e del conseguente regime applicabile, precisando che l'evoluzione che nel corso degli anni si è avuta in tema di danni non patrimoniali risarcibili e l'accresciuta entità dei risarcimenti liquidati hanno indubitabilmente comportato un aumento dei casi in cui è stato possibile ravvisare una responsabilità civile del medico ospedaliero, chiamato direttamente a risarcire il danno sulla base del solo «contatto» con il paziente salva la prova di provare di essere esente da responsabilità ex art. 1218 c.c. Sarebbe altresì derivata una maggiore esposizione di tale categoria professionale al rischio di dover risarcire danni anche ingenti (con proporzionale aumento dei premi assicurativi), così contribuente involontariamente all'esplosione del fenomeno della cd «medicina difensiva», come reazione al proliferare delle azioni di responsabilità promosse contro i medici. La ratio legis di cui innanzi, volta al contenimento del detto fenomeno e del conseguente aumento dei relativi costi assicurativi, e l'interpretazione sistematica della norma, nel conteso dell'intero d.l. 13 settembre 2012, n. 158, così come modificato con la legge di conversione, secondo la decisione in esame guiderebbero verso la detta soluzione interpretativa. L'art. 3 in esame, in sintesi, oltre ad introdurre indubbie restrizioni alla responsabilità penale, prevedendo una parziale abolitio criminis degli artt. 589 e 590 c.c., disciplinerebbe difatti vari aspetti della «responsabilità professionale dell'esercente le professioni sanitarie», compresa quella risarcitoria. Di essa se ne occuperebbe non solo nel primo comma, con il richiamo all'obbligo di cui all'art. 2043 c.c. e con la previsione di tener conto nella determinazione del risarcimento del danno del fatto che il responsabile si sia attenuto alle linee guida, ma anche nel successivo comma 3, che introduce un criterio legale di liquidazione del danno biologico mediante il rinvio alle tabelle previste negli artt. 138 e 139 del d.lgs. n. 209/2005 (c.d. codice delle assicurazioni) e, in qualche modo, nel quinto comma, ove è previsto l'aggiornamento periodico e l'inserimento di specialisti nell'albo dei Ctu. Peraltro, sempre per il citato tribunale di Milano, l'interpretazione per la quale secondo cui l'art. 3 comma 1 sarebbe «legge penale» o «eccezionale», destinata, in quanto tale a disciplinare ex art. 14 delle preleggi solo i casi dalla stessa espressamente previsti (di esonero dalla responsabilità penale del medico in colpa lieve e responsabilità risarcitoria ex art. 2043 c.c. dello stesso professionista solo in caso di proscioglimento/assoluzione in sede penale), oltre a non rispondere ai comuni canoni ermeneutici porrebbe forti dubbi di legittimità costituzionale. Si paventa in particolare l'ingiustificata ed irragionevole disparità di trattamento e diversità di disciplina che verrebbero a crearsi a seconda che una determinata condotta illecita del medico (causativa di danni risarcibili) venga preventivamente vagliata dal giudice penale oppure no. Di segno diametralmente opposto è lo stesso tribunale, con una decisione di poco successiva. Il Trib. Milano V, n. 13574/2014, difatti, ripropone l'orientamento della Suprema Corte, ritenendo che anche dopo l'entrata in vigore dell'art. 3. del d.l. 13 settembre 2012, n. 158, così come modificato con la legge di conversione, nulla sia cambiato in merito alla natura della responsabilità del sanitario. Essa, precisa la sentenza in esame, rimane di natura contrattuale da contatto sociale qualificato anche nel caso in cui non intercorra un contratto di prestazione d'opera professionale tra paziente e sanitario operante all'interno della struttura sanitaria. Il primo comma del citato art. 3 in particolare si riferirebbe esplicitamente ai (soli) casi di colpa lieve dell'esercente la professione sanitaria che si sia attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. L'ossequio alla lettera della nuova disposizione, pertanto, comporterebbe, sempre per l'orientamento in esame, anche adeguata valorizzazione dell'incipit dell'inciso immediatamente successivo alla proposizione che esclude la responsabilità del sanitario in detti casi, per effetto del quale deve ritenersi che esso si riferisca soltanto – appunto – a «tali casi» (di colpa lieve del sanitario che abbia seguito le dette linee guida). D'altra parte, argomenta il tribunale di Milano, la presunzione di consapevolezza che si vuole assista l'azione del legislatore impone di ritenere che esso, ove avesse effettivamente inteso ricondurre una volta per tutte la responsabilità del medico ospedaliero (e figure affini) sotto il (solo) regime della responsabilità extracontrattuale, escludendo l'applicabilità della disciplina di cui all'art. 1218 c.c. e così cancellando lustri di elaborazione giurisprudenziale, avrebbe certamente impiegato, in luogo dell'inciso in commento, proposizione univoca, come, in ipotesi: «la responsabilità dell'esercente la professione sanitaria per l'attività prestata quale dipendente o collaboratore di ospedali, cliniche e ambulatori è disciplinata dall'art. 2043 c.c.». Immediatamente dopo la riproposizione del contrasto nella giurisprudenza di merito, circa la portata del citato art. 3, la Suprema Corte ribadisce il proprio orientamento, già assunto con i precedenti citati interventi del 2013 e del 2014, al quale la giurisprudenza di merito mostra di aderire. Sicché, la norma in commento, per l'attuale pacifico orientamento di legittimità, non esprime alcuna opzione da parte del legislatore per la configurazione della responsabilità civile del sanitario, come responsabilità necessariamente extracontrattuale, ma intende solo escludere, in tale ambito, l'irrilevanza della colpa lieve in forza del principio per il quale essa viene sempre in considerazione in materia di responsabilità aquiliana (Cass. III, n. 27391/2014; la successiva giurisprudenza di merito aderisce all'arresto di legittimità, si vedano, ex plurimis, Trib. Arezzo, 11 luglio 2016, Trib. L'Aquila, 21 gennaio 2016, Trib. Bari, 7 luglio 2015, e Trib. Milano, 20 febbraio 2015). Dal disegno di legge alla legge in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarieLa mobilità delle frontiere tra le due forme di responsabilità (extracontrattuale e contrattuale, in ipotesi da «contatto sociale») continua a registrarsi, sempre in tema di responsabilità medica, sul versante legislativo. Nella seduta del 28 gennaio 2016, l'Assemblea della Camera approva in prima lettura il testo unificato di alcune proposte di legge (A.C. 259) sulla responsabilità professionale del personale sanitario, poi approvato dal Senato ma con modificazioni (A.S. 2224) nonché approvato in seconda lettura dalla Camera, l'11 gennaio 2017, divenendo quindi l. 8 marzo 2017, n. 24 recante «Disposizioni in tema di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie» (pubblicata in G.U. il 17 marzo 2017). Il disegno di legge e le prime considerazioni dottrinali È opportuna una breve disamina del disegno di legge approvato in prima lettura dalla Camera, per poi passare all'analisi delle principali modifiche apportate dal senato, con le quali è divenuto legge, in quanto già con riferimento ad esso la dottrina ha elaborato tesi che evidenziano la difficoltà del giurista di concepire come esclusivamente extracontrattuale una responsabilità che «ontologicamente» si atteggia anche come contrattuale. Il disegno di legge inerisce la sicurezza delle cure sanitarie, la responsabilità civile e penale dell'esercente la professione sanitaria e la responsabilità civile della struttura in cui opera. Esso, in tema di responsabilità civile, mira ad introdurre rilevanti novità rispetto alla disciplina attualmente in vigore ponendo l'attenzione dell'interprete questioni di non facile soluzione, concernenti sia profili sostanziali che processuali. Sul piano del diritto sostanziale, novità rilevante concerne la qualificazione della responsabilità civile della struttura e dell'esercente la professione sanitaria che in essa opera, anche se modifiche sono previste per quanto concerne la responsabilità penale. L'art. 7 difatti, dispone: «1. La struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell'adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell'opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose. 2. La disposizione di cui al comma 1 si applica anche alle prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina. 3. L'esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile.» In dottrina già si è prospettato che il contrasto interpretativo in merito all'art. 3 del d.l. 13 settembre 2012, n. 158, come modificato dalla l. 8 novembre 2012, n. 189 (di conversione), c.d. legge Balduzzi, di cui innanzi, si riproporrà anche di fronte alla nuova norma contenuta nel d.d.l. sulla responsabilità professionale del personale sanitario e che esso difficilmente potrà essere risolto con una soluzione esegetica omologa a quella affermata dalla Suprema Corte con riguardo alla citata norma. La circostanza che la norma contenuta nel citato art. 3 richiami l'art. 2043 c.c. nell'ambito di una previsione concernente la responsabilità penale dell'esercente la professione sanitaria ha difatti consentito, pur con le già evidenziate difficoltà di ordine logico, di ritenere che il legislatore volesse soltanto ribadire la diversa rilevanza dell'elemento subiettivo dell'illecito con riguardo alla responsabilità civile di carattere aquiliano, senza prendere posizione sulla qualificazione della responsabilità medica necessariamente come responsabilità di quella natura. Per la tesi in argomento il disegno di legge in esame non si limita a richiamare la norma cardine sull'illecito aquiliano nell'ambito di una disposizione concernente la responsabilità penale dell'esercente la professione sanitaria ma, al contrario, pone una chiara distinzione tra la responsabilità della struttura e la responsabilità del personale che in essa opera, qualificando la prima in termini di responsabilità contrattuale e la seconda in termini di responsabilità extracontrattuale (Spaziani, 2). Sempre per la citata dottrina, di fronte a tale chiara previsione normativa non si potrebbe continuare, se non a costo di una inaccettabile interpretatio abrogans, a ritenere insuperabile l'orientamento tradizionale sulla responsabilità «da contatto» e dovrebbe invece prendersi atto della distinzione tra i due tipi di responsabilità (quella della struttura e quella dell'esercente la professione sanitaria) e delle conseguenti implicazioni sul piano della disciplina. La necessità di prendere atto delle eventuali novità legislative, per la tesi in argomento, non può tuttavia consentire che sia smarrita la consapevolezza della diversità ontologica tra le due forme di responsabilità conosciute dal nostro ordinamento (Spaziani, 2-8). Sul piano ontologico, si profila una responsabilità di tipo contrattuale nelle ipotesi di violazione di un obbligo specifico verso un determinato soggetto, titolare di una specifica pretesa creditoria, per converso, si profila una responsabilità di tipo extracontrattuale nelle ipotesi di violazione di un dovere generico verso tutti i consociati, e cioè di un dovere di rispetto degli interessi altrui nella vita di relazione (neminem laedere), a prescindere dalla sussistenza di uno specifico rapporto obbligatorio. La diversità ontologica tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale esclude che possa darsi ingresso a tesi interpretative che – movendo dal dato letterale e dalla ratio sottesa all'introducenda novità legislativa – si spingano ad individuare nell'inadempimento (o nell'inesatto adempimento) della prestazione sanitaria da parte del medico o del paramedico operanti nella struttura una fattispecie di responsabilità extracontrattuale. Il mutamento del dato normativo non potrebbe difatti incidere sulla circostanza – inerente, appunto, all'ontologia della fattispecie – che l'esercente la professione sanitaria è pur sempre vincolato da un obbligo specifico nei confronti di un soggetto determinato (il paziente) e non semplicemente al rispetto dei medesimi doveri generici della vita di relazione che incombono sulla generalità dei consociati. La violazione di questo obbligo specifico – sia che si traduca in una totale omissione della prestazione dovuta sia che si traduca in un'inesatta esecuzione di essa – integrerebbe, pertanto, inadempimento (culpa in non faciendo: art. 1218 c.c.) e darebbe luogo a responsabilità contrattuale (Spaziani, 2-10, che esplicitamente riprende le argomentazioni di Castronovo, 2006, 484-485, il quale, muovendo dalla considerazione per la quale nella responsabilità aquliana non si può parlare di culpa in non faciendo, in quanto tra persone non strette da alcun vincolo non può esistere un obbligo, conclude nel senso che, gravando sul medico obblighi di cura impostigli dall'arte che professa ed aventi come destinatario il singolo paziente, la violazione dell'obbligo di cura da parte del sanitario si configura in termini di culpa in non faciendo, suscettibile, quindi, di generare responsabilità contrattuale). In ipotesi di recepimento in legge del citato d.d.l. sulla responsabilità professionale del personale sanitario, già concludeva l'orientamento dottrinale in esame, accedendo ad una soluzione interpretativa intermedia tra le due tesi estreme formulate con riguardo al più volte citato art. 3, dovrebbe ritenersi che la previsione secondo cui «l'esercente la professione sanitaria...risponde del proprio operato ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile» non costituisca una norma di disciplina primaria della fattispecie della responsabilità del medico o del paramedico che opera nell'ambito di una struttura sanitaria (recante la qualificazione di tale fattispecie in termini di responsabilità extracontrattuale). Per converso, essa costituirebbe una norma di disciplina secondaria, e cioè una norma di rinvio che, preso atto di una fattispecie ontologicamente riconducibile alla responsabilità contrattuale, ne prevede tuttavia la disciplina attraverso il rinvio alle regole della responsabilità extracontrattuale. La precisazione sulla natura della norma, per la tesi in argomento, non sarebbe scevra di conseguenze pratiche. Se si dovesse ritenere che essa, in quanto norma primaria, rechi la qualificazione della responsabilità del medico in termini di responsabilità extracontrattuale, tale fattispecie sarebbe interamente assoggettabile alla relativa disciplina. Al contrario, qualora si configurasse la norma quale norma di rinvio (tale, quindi, da non incide sulla natura contrattuale della responsabilità del medico, limitandosi rinviare per la sua disciplina, alle regole sulla responsabilità extracontrattuale), permarrebbe il quesito in merito ai limiti entro i quali tale disciplina potrebbe applicabile. In considerazione della ratio dell'intervento legislativo, consistente nell'esigenza di limitare la responsabilità del medico sia al fine del contenimento della spesa pubblica conseguente alla liquidazione degli importi risarcitori e all'aumento dei premi assicurativi sia al fine di porre rimedio al fenomeno della c.d. medicina difensiva, che si traduce nella prestazione di cure inappropriate incidendo negativamente sulla tutela del diritto alla salute dei pazienti, potrebbero ritenersi applicabili gli istituti della responsabilità aquiliana più favorevoli al responsabile mentre potrebbero ritenersi inapplicabili quelli che si traducono in una disciplina a lui sfavorevole. Secondo la detta impostazione, dunque, potrebbero ritenersi applicabili all'esercente la professione sanitaria, chiamato a rispondere ai sensi dell'art. 2043 c.c., il più favorevole regime che connota la responsabilità aquiliana in tema di prescrizione del diritto al risarcimento e di riparto dell'onere probatorio nonché la regola che subordina l'imputabilità del fatto dannoso alla capacità di intendere e di volere del suo autore, mentre potrebbe reputarsi inapplicabile l'esclusione della regola di determinazione del danno risarcibile di cui all'art. 1225 c.c., la quale, sebbene non richiamata dalla disciplina della responsabilità aquiliana potrebbe comunque trovare operatività in ragione della natura ontologicamente contrattuale della responsabilità (Spaziani, 2-11). Altra parte della dottrina, già in sede di primo commento del disegno di legge, sostiene che l'introduzione di un regime a doppio binario, tale da configurare come contrattuale la responsabilità della struttura sanitaria ed extracontrattuale quella del medico (salvo il caso in cui intercorra un effettivo contratto tra medico e paziente) non comporterebbe un deficit di tutela del soggetto debole (il paziente) ma consentirebbe, per converso, di ravvisare la responsabilità della struttura, in ragione del collegamento causale tra danno e organizzazione dell'attività sanitaria, anche nei casi di difficile riconducibilità dell'ipotesi concreta al fatto illecito del medico o all'inadempimento della struttura (De Matteis, 2015, 3, 566). Sembra opinare diversamente invece quella dottrina che acutamente evidenzia come un ritorno ad un regime duplice di responsabilità, modello già sperimentato dalla giurisprudenza degli anni ‘70 del secolo scorso, ritenuto insufficiente ed ormai superato dalla consolidata giurisprudenza, potrebbe affievolire la tutela del paziente quale soggetto debole, inasprendone gli oneri probatori (Ambrosi, 165-190). Le disposizioni in materia di sicurezza delle cure e di responsabilità professionale Le perplessità già manifestate in dottrina con riferimento al disegno di legge ed innanzi evidenziate potrebbero essere ulteriormente acuite in ragione dell'attuale testo della citata l. 8 marzo 2017, n. 24 (in vigore dall'1 aprile 2017). Senza pretesa alcuna di esaustività, preme evidenziare che l'obiettivo dichiarato della legge in esame (art. 1) è la sicurezza delle cure che essa intende perseguire mediante: Difensore civico e Centri regionali per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente (art. 2); l'Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità (art. 3); la Trasparenza dei dati (art. 4) ed il rispetto da parte del sanitario delle linee guida (art. 5) elaborate istituzioni, enti pubblici e privati iscritti in apposto elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute. A tali linee guida dovranno in particolare attenersi gli esercenti le professioni sanitarie, nell'esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale; in mancanza, dovranno attenersi alle buone pratiche clinico-assistenziali. L'art. 6 disciplina la responsabilità penale dell'esercente la professione sanitaria, inserendo un nuovo articolo nel c.p. (il 590-sexies c.p.), rubricato sotto il titolo: «Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario. Al riguardo preme evidenziare che il legislatore ha previsto, per il caso di evento causato da imperizia (non vi è riferimento esplicito alla negligenza ed all'imprudenza) l'esclusione della punibilità dell'esercente la professione sanitaria nel caso di rispetto delle linee guida o, in mancanza di esse, delle buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le une e le altre risultino adeguate alla specificità del caso concreto. Lo specifico riferimento alla sola imperizia porta dunque a ritenere una presa di posizione legislativa circa il dibattito dottrinal-giurisprudenziale inerente l'art. 3 del d.l. 13 settembre 2012, n. 158, come modificato dalla l. 8 novembre 2012, n. 189 (di conversione), c.d. legge Balduzzi, che, infatti, è abrogato dello stesso nuovo art. 6 in esame. Con particolare riferimento alla responsabilità civile della struttura e dell'esercente la professione sanitaria, l'art. 7 l. 8 marzo 2017, n. 24, presenta modificazioni di rilievo rispetto al corrispondente articolo del descritto disegno di legge. Nel dettaglio, il primo comma non ha subito modificazioni mentre il secondo contiene anche il riferimento alle prestazioni sanitarie svolte nell'ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica. Sicché, la nuova disposizione normativa, facendo proprio il consolidato orientamento di legittimità in materia, dispone, al comma 1, che la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell'adempimento della propria obbligazione si avvalga dell'opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c, delle loro condotte dolose o colpose. Quanto innanzi, ai sensi del comma 2 del citato art. 7, si applica anche alle prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero nell'ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina. Maggiori modifiche sono state invece apportate al terzo comma dell'originario disegno di legge, cioè proprio a quello riguardante la responsabilità civile dell'esercente la professione sanitaria. Esso, difatti, anche nella versione definitiva dispone che «l'esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile» ma (ed in ciò vi è la modifica rispetto al disegno di legge approvato in prima lettura dalla Camera) salvo che abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente. Il giudice, continua il citato comma 3, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell'esercente la professione sanitaria, ai sensi dell'art. 5 della medesima l. n. 24/2017 e dell'art. 590-sexies c.p. (introdotto dall'articolo 6 stessa legge). La norma di cui all'art. 7, comma 3, l. n. 24/2017, però, al pari di quanto previsto dall'art. 3, comma 1, d.l. n. 158/2012 (convertito dalla l. n. 189/2012), non ha efficacia retroattiva e non è applicabile ai fatti verificatisi anteriormente alla loro entrata in vigore (Cass. III, n. 28811/2019 e Cass. III, n. 28994/2019). La norma contenuta nell'art. 3, comma 3, del citato d.l. n. 158/2012, sostanzialmente riprodotta nell'art. 7, comma 4, della l. n. 24/2017 - la quale prevede il criterio equitativo di liquidazione del danno non patrimoniale fondato sulle tabelle elaborate in base agli artt. 138 e 139 d.lgs. n. 209 del 2005 (Codice delle assicurazioni private) - trova invece applicazione anche nelle controversie relative ad illeciti commessi e a danni prodotti anteriormente alla sua entrata in vigore, nonché ai giudizi pendenti a tale data (con il solo limite del giudicato interno sul quantum), in quanto la disposizione, non incidendo retroattivamente sugli elementi costitutivi della fattispecie legale della responsabilità civile, non intacca situazioni giuridiche precostituite ed acquisite al patrimonio del soggetto leso, ma si rivolge direttamente al giudice, delimitandone l'ambito di discrezionalità e indicando il criterio tabellare quale parametro equitativo nella liquidazione del danno (Cass. III, n. 28990/2019). Nella scia interpretativa di cui innanzi Cass. III, n. 25274/2020 ha statuito che In tema di risarcimento del danno biologico di lieve entità, l'art. 139 del d.lgs. n. 209 del 2005 (Codice delle assicurazioni private), come sostituito dall'art. 1 l. n. 124/2017, trova applicazione anche nei giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge di modifica della norma, salvo che quest'ultima preceda la data di pubblicazione della sentenza (nella specie, quella del giudice di appello) soltanto di pochi giorni, poiché una diversa soluzione (cioè, la regressione del processo) determinerebbe la violazione del principio di irretroattività di cui all'art. 11 preleggi e lo stravolgimento delle preclusioni processuali, ad onta del principio costituzionale di ragionevole durata del procedimento giurisdizionale. Nell'esercizio del potere di liquidazione del danno alla salute secondo equità si devono comunque assicurare l'adeguatezza del risarcimento all'utilità effettivamente perduta e l'uniformità dello stesso in situazioni identiche; perciò, qualora tali scopi non siano raggiungibili attraverso il criterio cd. "tabellare", venendo in questione un'ipotesi di danno biologico non contemplata dalle tabelle adottate, il giudice di merito è tenuto a fornire specifica indicazione degli elementi della fattispecie concreta considerati e ritenuti essenziali per la valutazione del pregiudizio, nonché del criterio di stima ritenuto confacente alla liquidazione equitativa, anche ricorrendo alle tabelle come base di calcolo, ma fornendo congrua rappresentazione delle modifiche apportate e rese necessarie dalla peculiarità della situazione esaminata. In applicazione del principio da ultimo evidenziato, Cass. III, n. 12913/2020, in fattispecie relativa a liquidazione del danno biologico di un soggetto deceduto ante tempus per causa diversa dal fatto dannoso, ha confermato la decisione di merito che – nell'impossibilità di applicare il valore tabellare relativo all'età del danneggiato al momento del sinistro e alla sua aspettativa di vita media, dovendosi piuttosto fare riferimento alla durata reale della vita del soggetto – ha liquidato il risarcimento avendo riguardo al valore monetario tabellare giornaliero previsto per l'inabilità temporanea assoluta moltiplicato per il numero di giorni della effettiva esistenza in vita del danneggiato). In sede di primissimi commenti alla citata l. 8 marzo 2017, n. 24, è stato evidenziata l'incerta portata applicativa del riferimento che l'art. 7 comma 3 della l. n. 24/2017 fa, ai fini della determinazione del danno risarcibile, all'art. 5 della stessa legge oltre che all'art. 590-sexies da essa introdotto. Le modalità della condotta lesiva e l'elemento psicologico che la connota non inciderebbero difatti normalmente sull'entità del risarcimento, avente natura riparatoria e compensativa della sfera giuridica del danneggiato dall'illecito (Gattari, secondo il quale, il nuovo sistema vedrebbe ampliare le possibilità di tutela del paziente danneggiato, in quanto l'apparente riduzione di tutela per il paziente ravvisabile, più in astratto che in concreto, nella scelta legislativa di far rispondere il medico «strutturato» solo a titolo di responsabilità extracontrattuale, risulterebbe ben compensata dalla responsabilità contrattuale della struttura, dai previsti obblighi assicurativi, dall'azione diretta contro le l'assicuratrice assicuratrici e dalla previsione di un Fondo di garanzia). Il danno conseguente all'attività della struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata, e dell'esercente la professione sanitaria, come statuisce l'aggiunto comma 4 (all'art. 7), è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del codice delle assicurazioni private (di cui al d.lgs. n. 209/2005) integrate, ove necessario, con la procedura di cui al comma 1 del predetto articolo 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti alle attività di cui allo stesso art. 7 della l. n. 24/2017 (con esclusione, quindi, dell'applicazione di tabelle differenti da quelle di cui innanzi, come peraltro già disposto dall'art. 3 del d.l. n. 258/2012, conv. con modif. dalla l. n. 189/2012). Perplessità potrebbero in particolare sorgere in forza del richiamo che l'art. 7 comma 3 della legge in esame fa all'art. 2043 c.c., che, comunque, è compatibile con l'attività sanitaria, non essendovi preclusioni alla concorrenza di responsabilità aquiliana e di responsabilità contrattuale, in relazione al suo collegamento con la successiva clausola di riserva sempre in detto comma contenuta: «salvo che abbia agito nell'adempimento di un'obbligazione contrattuale assunta con il paziente». Tale terminologia potrebbe difatti (continuare ad) evocare la responsabilità contrattuale del sanitario da «contatto sociale qualificato», sorgendo in capo al sanitario dal «contatto qualificato» non meri obblighi di protezione ma le obbligazioni proprie del contratto di prestazione d'opera intellettuale (professionale), nei termini di cui all'attuale elaborazione dottrinal-giurisprudenziale esplicitata nei paragrafi precedenti. Costituendo, peraltro, le norme dell'articolo in commento, «norme imperative ai sensi del codice civile», come statuito dal quinto ed ultimo comma dello stesso articolo 7. Qualora in via interpretativa si ritenesse legislativamente «trasformata» in extracontrattuale una responsabilità «ontologicamente» contrattuale, potrebbero sorgere dubbi di compatibilità costituzionale della norma, applicandosi essa solo alle ipotesi di «contatti» tra medico e paziente avvenuti per il tramite di strutture sanitarie (quelle di cui al citato art. 7). Rimarrebbero quindi escluse le ipotesi di «contatto sociale qualificato» tra medico e paziente non integranti il detto schema, ad esempio per essere il contatto occasionale o fortuito o comunque avvenuto non tramite strutture sanitarie, in ordine alle quali continuerebbe ad ipotizzarsi una responsabilità contrattuale da contatto sociale qualificato. Ci si deve chiedere altresì se, in virtù del combinato disposto di cui ai commi 2 e 3 del citato art. 7, anche il medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale (al quale i detti commi fanno riferimento) risponderebbe extracontrattualmente, salvo che abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente. In ipotesi di prestazione eseguita in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale difficilmente potrebbe escludersi che il medico, nel trattamento sanitario del paziente che a lui si sia rivolto, abbia agito con nell'adempimento di obbligazione contrattuale. Il vulnus al principio di uguaglianza potrebbe quindi operare su un versante duplice. Dal lato del paziente che, solo nel caso di cure mediche ricevute tramite una struttura sanitaria (di cui al citato art. 7), non potrebbe invocare la responsabilità contrattuale del sanitario, anche se, in tale ipotesi alla responsabilità extracontrattuale del medico si aggiungerebbe quella contrattuale della struttura. Dal lato degli stessi operatori sanitari. Questi ultimi, difatti, solo se operanti all'interno di strutture (ovvero se stipulanti un contratto con il paziente in ipotesi anche in regie di libera professione intramuraria) sarebbero «liberati dalla responsabilità contrattuale». Sembrerebbe altresì difficile ipotizzare che in caso di prestazioni in regime di libera professione intramuraria il medico non agisca nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il cliente. Qualora fosse ipotizzabile una detta situazione il vulnus di cui innanzi potrebbe risultare addirittura maggiore, discriminando medici operanti in regime di libera professione non all'interno di strutture sanitarie e medici operanti in regime di libera professione in strutture sanitarie. A fronte delle dette osservazioni occorrerà verificare quanto varrà, in senso contrario, la considerazione degli altri interessi in gioco, posti a fondamento della ratio dell'intervento legislativo, al fine di far ritenere ragionevole la scelta legislativa, considerata anche la circostanza per la quale quelle di cui innanzi potrebbero integrare violazioni dell'art. 3 Cost. in termini non di ragionevolezza costituzionale, con conseguente possibile rilevanza degli altri interessi in gioco, ma di uguaglianza. In gioco potrebbero entrare anche altri parametri costituzionali, tra i quali il diritto di difesa ex art. 24 Cost., in ragione delle differenze caratterizzanti, anche in tema di riparto dell'onere probatorio, le due diverse tipologie di responsabilità. Il tutto «condito» dall'assenza di norme transitorie con particolare riferimento alle disposizioni inerenti la natura della responsabilità. Natura e contenuto della prestazione: erosione della distinzione tra obbligazione di mezzi a quella di risultatoDalla natura contrattuale del rapporto tra professionista e paziente (da contratto o da contatto sociale) ne discende la natura altrettanto contrattuale della relativa responsabilità, con riferimento all'inadempimento delle nascenti obbligazioni che, normalmente, sono di mezzi e non di risultato. Il professionista, assumendo l'incarico, si impegna ad espletare la sua attività ponendo in essere tutte le condizioni tecnicamente necessarie a consentire al cliente la realizzazione dello scopo perseguito ma non il conseguimento effettivo di tale risultato. Nelle obbligazioni di mezzi, difatti, la prestazione dovuta prescinde da un particolare esito positivo dell'attività del debitore, il quale, quindi, adempie esattamente ove svolga l'attività richiesta nel modo dovuto (nel caso di prestazioni professionali, non solo prudente e diligente ma anche perita). In tali ipotesi è lo stesso comportamento del debitore ad essere in obbligazione, sicché la diligenza (nella specie, anche la perizia) è tendenzialmente considerata quale criterio determinativo del contenuto del vincolo. Ne consegue altresì che il risultato è caratterizzato dalla aleatorietà in quanto dipendente dal comportamento del debitore ma anche da altri fattori esterni, oggettivi o soggettivi (in termini, proprio in materia di responsabilità professionale medico-chirurgica, Cass. III, n. 8826/2007; Cass. S.U., n. 15781/2005). Per converso, nelle obbligazioni di risultato ciò che rileva è il conseguimento di esso, laddove la diligenza opera quale parametro di valutazione e controllo del comportamento del debitore, sicché è il risultato al quale mira il creditore ad essere dedotto in obbligazione e non il comportamento del debitore (ex plurimis, Cass. S.U., n. 15781/2005, cit.). Con particolare riferimento alle prestazioni d'opera intellettuale e, quindi, anche a quelle professionali, occorre però tenere conto, come precisa la citata Cass. S.U., n. 15781/2005 (ancorché in tema di responsabilità professionale dell'ingegnere), della frequente commistione delle diverse obbligazioni in capo al professionista (in ipotesi anche in capo a distinti soggetti in vista dello stesso scopo finale), le quali possono caratterizzarsi in termini di obbligazioni di mezzi, talune, e di risultato, altre. Questa considerazione, in aggiunta ad argomentazioni dottrinali contrarie alla detta distinzione, conduce anche la giurisprudenza ad una rivisitazione della struttura del rapporto obbligatorio con riferimento alle prestazioni d'opera intellettuale ed alla conseguente responsabilità professionale (Cass. S.U., n. 15781/2005, cit.). La distinzione tra le due tipologie di obbligazioni, pur conservando la funzione descrittiva innanzi evidenziata, è difatti superata, in precedenza, quanto meno in tema di riparto dell'onere probatorio, già in forza di un arresto delle Sezioni Unite del 2001, che conferma la centralità del principio della vicinanza della prova, senza distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato (Cass. S.U., n. 13533/2001). Con particolare riferimento proprio alla responsabilità professionale medica, nella specie della struttura ospedaliera per danno da emotrasfusione, la rilevanza pratica della distinzione tra le due tipologie di obbligazioni è invece erosa soprattutto in virtù di un intervento nomofilattico delle Sezioni Unite del 2008. Esse difatti chiariscono che l'inadempimento rilevante nell'ambito dell'azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni c.d. di comportamento (o di mezzi) non è qualunque inadempimento bensì solo quello causa (o concausa) efficiente del danno (Cass. S.U., n. 577/2008, cit.). In particolare, per l'intervento nomofilattico da ultimo indicato, l'impostazione tradizionale fondante sulla distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato non è immune da profili problematici, specialmente se applicata proprio alle ipotesi di prestazione d'opera intellettuale, in considerazione della struttura stessa del rapporto obbligatorio e tenendo conto, altresì, che un risultato è dovuto in tutte le obbligazioni. In realtà, precisa La Suprema Corte, in ogni obbligazione si richiede la compresenza sia del comportamento del debitore che del risultato, anche se in proporzione variabile, con la conseguenza che in ciascuna obbligazione assumono rilievo tanto il risultato pratico da raggiungere attraverso il vincolo quanto l'impegno che il debitore deve porre per ottenerlo. Dalla casistica giurisprudenziale emergono spunti interessanti in ordine alla dicotomia tra obbligazione di mezzi e di risultato, spesso utilizzata al fine di risolvere problemi di ordine pratico, quali la distribuzione dell'onere della prova e l'individuazione del contenuto dell'obbligo, ai fini del giudizio di responsabilità. Operandosi non di rado, per ampliare la responsabilità contrattuale del professionista, una sorta di metamorfosi dell'obbligazione di mezzi in quella di risultato, attraverso l'individuazione di doveri di informazione e di avviso, definiti accessori ma integrativi rispetto all'obbligo primario della prestazione, ed ancorati a principi di buona fede, quali obblighi di protezione, indispensabili per il corretto adempimento della prestazione professionale in senso proprio (per un esempio di tale attività giurisprudenziale si veda, per quanto riguarda la responsabilità professionale del medico, Cass. III, n. 9471/2004). Ne consegue che, per valutare l'adempimento da parte del sanitario, necessita muovere dal criterio della diligenza esigibile ai sensi dell'art. 1176 comma 2 c.c. che, in quanto rapportata alla natura dell'attività esercitata, è quella del professionista di preparazione tecnica e di attenzione medie con particolare riferimento alla specifica attività espletata. La dottrina tradizionale riconduce quelle professionali nell'abito della categoria delle obbligazioni di mezzi e non di risultato, facendone discendere la natura di responsabilità di tipo soggettivo fondata sulla colpa (D'Amico, 105). Ne consegue la riconducibilità della mancata realizzazione del risultato a causa non imputabile al debitore, sul quale graverebbe il solo onere probatorio di dimostrare la condotta diligente e perita (in quanto adottata in base a cognizioni tecniche inerenti la qualificazione professionale posseduta), in base alla natura dell'attività intellettuale richiesta ed alle relative regole dell'arte (in termini generali, per l'utilità della distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, si veda, diffusamente, Trimarchi). Altra dottrina, che sembra progressivamente informare la giurisprudenza anche in tema di responsabilità professionali, assume invece posizioni critiche sull'utilizzo della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato (al di là della rilevanza dogmatica e classificatoria), la quale, ancorché operante soltanto all'interno della categoria delle obbligazioni di fare (a differenza che in Francia dove rappresenta una summa divisio valida per tutte le obbligazioni), origina contrasti sia in ordine all'oggetto o contenuto dell'obbligazione, sia in relazione all'onere della prova e, quindi, in definitiva, allo stesso fondamento della responsabilità del professionista. La distinzione tra le obbligazioni di mezzi e le obbligazioni di risultato non si fonderebbe quindi sulla diversità di oggetto delle obbligazioni, assistendosi ad una scissione tra interesse primario del creditore e risultato dovuto dal debitore, concretizzandosi nel comportamento idoneo al raggiungimento del risultato voluto dal creditore, con l'unica effettiva differenza da individuarsi nella sola diversa identificazione dei temi di prova dell'inadempimento (Mengoni, 185-280; Piraino, 2008, 115; Piraino, 2011, 576). In generale, quindi, anche con riferimento alle prestazioni d'opera intellettuale (professionale) ma non solo, autorevole dottrina, ritenendo che non sussistano obbligazioni con riferimento alle quali il debitore debba assicurare il risultato a prescindere dalla diligenza dallo stesso esigibile, essendo la diligenza regola generale del diritto delle obbligazioni, sostiene che la distinzione tra le due obbligazioni rilevi sull'oggetto del giudizio d'impossibilità della prestazione ex art. 1218 c.c. Nelle obbligazioni di mezzi, in particolare, il debitore sarebbe liberato nel caso di impossibilità della specifica attività dedotta in obbligazione (sempre strumentale al soddisfacimento dell'interesse/risultato creditorio). Per converso, nelle obbligazioni di risultato la liberazione del debitore consegue alla prova dell'impossibilità della realizzazione della finalità dedotta in obbligazione mediante qualunque condotta strumentale ad essa esigibile dal creditore (Bianca, 1993, 74). Argomentando nei detti termini, l'orientamento da ultimo considerato, conclude nel senso che anche nelle obbligazioni nascenti da contratto di prestazione d'opera intellettuale, il fine del creditore, dedotto in obbligazione, non si identifica nella mera conformità della condotta del debitore alle regole di diligenza e di perizia del tecnico di media attenzione e preparazione bensì nelle conseguenze positive per il cliente che dovrebbero derivare dall'opera secondo un nesso di derivazione naturale, nel rispetto delle regole dell'arte ed in assenza di fattori imprevedibili ed inevitabili tali da rendere impossibile il conseguimento del risultato (Castronovo, 1998, 117-121, per il quale è necessaria valorizzazione del criterio della diligenza, quale regola tecnica del professionista medio, Di Majo, 1998, 40, in generale, sulla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, si veda anche con riferimento all'origine francese della distinzione, Viney, 628; sempre circa la generale distinzione tra le due tipologie di obbligazioni, si vedano, tra i tanti: De Lorenzi, 397; Mengoni, 185-280, e Sicchiero, 2322, il quale, dopo attenta disamina delle contrapposte tesi dottrinali, anche francesi, circa la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, con particolare riferimento alle attività professionali – anche del sanitario – propone una ricostruzione alternativa che si fonda sulla diversa distinzione tra obbligazioni governabili ed obbligazioni non governabili; per il dialogo dottrinal-giurisprudenziale circa la natura dell'obbligazione del professionista, tra obbligazione di mezzi ed obbligazione di risultato, con particolare riferimento alle conseguenza in tema di riparto dell'onere probatorio ed all'attuale diversità dell'elaborazione giurisprudenziale in merito all'atteggiarsi del detto riparto con riferimento alla responsabilità medica ed a quella dell'avvocato, si veda Scalia-Centofanti, 242). Diligenza, prudenza, perizia e limitazione di responsabilitàIl rigoroso criterio di accertamento della colpa professionale, di cui all'art. 1176 comma 2 c.c., implica che la nozione di professionista medio, secondo il costante insegnamento della Suprema Corte, sottende un professionista «bravo, serio, preparato, zelante ed efficiente», cioè non già il professionista mediocre bensì quello di elevata professionalità (ex plurimis, Cass. III, n. 24213/2015; Cass. III, n. 17143/2012). Per negligenza deve difatti oggi intendersi la violazione di regole sociali (nella specie caratterizzanti l'attività medica) e non solo la mera disattenzione, l'imprudenza è intesa quale violazione delle modalità imposte della regole sociali per l'espletamento di certe attività mentre l'imperizia implica violazione delle regole tecniche di settori determinati della vita di relazione (nella specie quelle inerenti l'arte medica), non essendo più connessa alla mera insufficiente attitudine all'esercizio di arti e professioni (ex plurimis, Cass. III, n. 9471/2004, cit.). Sembra oggi sempre più imprescindibile, con particolare riferimento alla perizia degli esercenti le professioni sanitarie, il riferimento alle linee guida, da seguire ovvero, in considerazione del caso concreto, da non applicare. Ancorché in merito alla c.d. legge Balduzzi (in precedenza esaminata), la Suprema Corte si è pronunciata in merito alla rilevanza “parascriminante” delle linee guida, escludendola. Esse, difatti, non assurgono al rango di fonti di regole cautelari codificate, non essendo né tassative né vincolanti, e comunque non potendo prevalere sulla libertà del medico, sempre tenuto a scegliere la miglior soluzione per il paziente. Sicché, pur rappresentando un utile parametro nell'accertamento dei profili di colpa medica, esse non eliminano la discrezionalità giudiziale, libero essendo il giudice di valutare se le circostanze del caso concreto esigano una condotta diversa da quella prescritta. In applicazione del principio, Cass. III, 11208/2017, ha annullato la sentenza impugnata che – nel respingere una domanda risarcitoria in relazione ad un'ipotesi di omessa informazione, ad una gestante, dei rischi connessi ad una possibile malformazione genetica del nascituro – aveva attribuito rilievo, tra l'altro, alla circostanza che, all'epoca dei fatti, le linee guida per la diagnosi citogenetica, impartite nel 2001, non erano ancora entrate in vigore. Tale circostanza è stata ritenuta rilevante dalla Suprema Corte sul presupposto che i sanitari, operanti all'interno di una struttura altamente specialistica, risultava non solo opportuno ma doveroso, in presenza di una gravidanza ritenuta a rischio, di un “tritest” positivo, nonché di un numero ritenuto oggettivamente eccessivo di esami ecografici, riferire che l'esame dei c.d. “villi corali” aveva raggiunto solo dodici e non sedici “metafasi”, sebbene la minore attendibilità di un referto formulato su tali basi fosse stata, poi, sancita solo dalle citate linee guida del 2001. Sul tema si registrano unanimità di vedute anche nella giurisprudenza penalistica (ex plurimis, tra le più recenti, Cass. pen. IV, n. 39165/2013,Cass. pen IV, n. 16237/2013), così come confermata anche dalla Consulta. Quest'ultima ha altresì chiaramente specificato che la limitazione di responsabilità (penale), ex art. 3 comma 1 della citata c.d. legge Balduzzi, incontra il suo invalicabile limite nell'addebito di imperizia, in quanto le linee guida in materia sanitaria contengono esclusivamente regole di perizia e non anche quando esercente la professione sanitaria si sia resa responsabile di una condotta negligente e/o imprudente (Corte cost., n. 295/2013). La normativa di cui innanzi è stata di recente abrogata ma gli approdi giurisprudenziali di cui innanzi sembrano destinati ad essere cogenti anche con riferimento alla nuova disciplina in materia. L'art. 5 l. n. 24/2017, in particolare, proprio nel disciplinare anche la responsabilità nelle professioni sanitarie, dispone difatti che gli esercenti le professioni sanitarie, nell'esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida. Ai sensi dell'art. 7 comma 3 della l. n. 24/2017, poi, nella determinazione del danno il giudice dovrà tenere conto della condotta dell'esercente la professione sanitaria ai sensi del citato art. 5 (oltre che dell'art. 590-sexies c.p., introdotto dall'art. 6 della l. n. 24/2017). Trattasi in particolare delle linee guida pubblicate ai sensi del comma 3 dello stesso art. 5, ai sensi del quale le linee guida e gli aggiornamenti delle stesse (anche essi elaborati dai soggetti deputati all'elaborazione delle linee guida) sono integrati nel Sistema nazionale per le linee guida (Snlg), disciplinato nei compiti e nelle funzioni con decreto del Ministero della Salute (da emanare con le modalità di cui allo stesso comma 3 in esame) nonché pubblicati nel sito internet dell'Istituto superiore di sanità, previa verifica della conformità della metodologia adottata a standard definiti e resi pubblici dallo stesso Istituto, nonché dalla rilevanza delle evidenze scientifiche dichiarate a supporto delle raccomandazioni. La clausola di riserva di cui innanzi, facendo salve «le specificità del caso concreto», conferma che l'esercente la professione sanitaria deve scientemente sapersi discostare delle dette linee guida nel caso in cui le circostanze lo richiedano, integrando altrimenti, per converso, proprio il rispetto delle dette linee, ipotesi di colpa. Per il processo di elaborazione delle linee guida, sempre l'art. 5 cit. fa riferimento ad enti e istituzioni pubblici e privati nonché società scientifiche ed associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie, iscritte in apposito elenco istituito e regolato con decreto del Ministro della salute, che nel far ciò deve attenersi alle indicazioni fornite dal comma 2 dello stesso art. 5 (da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge in esame e da aggiornare con cadenza biennale). In mancanza delle suddette linee raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie devono attenersi alle buone pratiche clinico-assistenziali. Emblematicamente, autorevole dottrina evidenzia che la diligenza ha la funzione di misurare l'obbligo al quale il soggetto è tenuto, riscontrando che in merito alla responsabilità medica la giurisprudenza si orienta in termini rigorosi circa la valutazione della diligenza (Bianca,3,1990, 478); laddove la diligenza del medico consiste nel rispetto di quel complesso di norme/tecniche che caratterizzano l'esecuzione di una prestazione d'opera intellettuale (in merito si veda, diffusamente, Di Majo, 1988). Il parametro di cui innanzi è di recente applicato ad un'ipotesi di lesioni derivate da un trapianto di cornee infette fornite dalla «banca degli occhi». Nel dettaglio, precisa la Suprema Corte, viola le regole di condotta esigibili dal professionista medio, ex art. 1176 comma 2 c.c., ed è pertanto tenuta al risarcimento dei danni causati da un trapianto di cornee infette, l'Azienda ospedaliera che, in quanto centro di riferimento regionale o interregionale per gli innesti corneali ai sensi dell'art. 4 della l. 12 agosto 1993, n. 301 (applicabile nella specie ratione temporis), ometta di analizzare i tessuti corneali custoditi nella «banca degli occhi», così disattendendo le linee guida del Centro nazionale per i trapianti, predisposte in attuazione dell'art. 1 comma 4 del d.m. 2 agosto 2002. Esse, difatti, all'art. 2, par. 2, affidano alle «banche degli occhi» il compito di raccogliere, processare, conservare e distribuire i tessuti oculari prelevati da donatore cadavere, «certificandone idoneità e sicurezza» (art. 2, par. 2). In applicazione di tale principio, Cass. III, n. 24213/2015, cit., ha negato che tale responsabilità possa essere limitata, esclusa o addossata alla clinica esecutrice del trapianto per effetto della mera apposizione sul contenitore delle cornee di una etichetta recante il «consiglio» di eseguire un esame microbiologico. Per converso, in ipotesi di emotrasfusione, la recente Cass. III, n. 3261/2016, ha escluso dall'ambito dello sforzo di diligenza richiedibile alla singola struttura ospedaliera, pubblica o privata, inserita nella rete del Servizio sanitario nazionale, il dovere di conoscere e attuare le misure attestate dalla più alta scienza medica a livello mondiale per evitare la trasmissione del virus (nella specie, Hbv, Hiv, Hcv). Ciò almeno quando la struttura, che abbia utilizzato sacche di sangue, provenienti dal servizio di immunoematologia trasfusionale della Usl, preventivamente sottoposte ai controlli richiesti dalla normativa dell'epoca, non provveda direttamente con un autonomo centro trasfusionale. Tale orientamento è di recente convalidato da Cass. VI-III, n. 7884/2018, per la quale, difatti, In materia di emotrasfusione e contagio da virus HBV, HIV, HCV, non risponde per inadempimento contrattuale la singola struttura ospedaliera, pubblica o privata, inserita nella rete del servizio sanitario nazionale, che abbia utilizzato sacche di sangue, provenienti dal servizio di immunoematologia trasfusionale della USL, preventivamente sottoposte ai controlli richiesti dalla normativa dell'epoca, esulando in tal caso dalla diligenza a lei richiesta il dovere di conoscere e attuare le misure attestate dalla più alta scienza medica a livello mondiale per evitare la trasmissione del virus, almeno quando non provveda direttamente con un autonomo centro trasfusionale. Nella specie, la Suprema.Corte ha cassato con rinvio la sentenza della corte territoriale che aveva escluso la responsabilità contrattuale della struttura ospedaliera, per contagio da virus HCV nel luglio 1983, ritenendola non tenuta ad alcun controllo sulle sacche di sangue, invece attribuito per legge al Ministero della salute, e, quindi, in assenza di un concreto accertamento circa la diligenza qualificata in merito all'utilizzo di sacche di sangue acquisite tramite la struttura pubblica ed all'esecuzione, da parte di quest'ultima, dei controlli imposti dalla normativa all'epoca vigente. Sempre in argomento preme evidenziare però che non spetta al primario di chirurgia od al chirurgo operatore il controllo diretto sul sangue, la corretta tenuta dei registri o la verifica della preventiva sottoposizione a tutti i test sierologici richiesti dalla legge delle sacche di sangue trasfuse, poiché si tratta di accertamenti di competenza del centro trasfusionale, che trasmette al reparto richiedente le dette sacche regolarmente etichettate. In particolare, solo il responsabile dell'acquisizione del sangue - il primario di ematologia, che dirige il citato centro trasfusionale - può rispondere della non completa compilazione della scheda di ciascuna sacca, della mancata esecuzione, da parte di tale centro, dei controlli di legge o dell'omessa annotazione sulle sacche in esame delle indicazioni imposte dalla normativa. Proprio in applicazione del detto principio, Cass. III, n. 25764/2019, ha escluso la responsabilità del primario del reparto di ostetricia e ginecologia di un ospedale per le lesioni patite da una donna dal medesimo operata in conseguenza della trasfusione di sangue infetto proveniente dal centro trasfusionale interno della struttura interessata, del quale esisteva un apposito responsabile). La diligenza esigibile dal medico nell'adempimento della sua prestazione professionale, pur essendo quella «rafforzata» di cui innanzi non è comunque sempre la medesima, variando con il variare del grado di specializzazione di cui sia in possesso il medico e del grado di efficienza della struttura in cui si trova ad operare, cioè in considerazione delle circostanze del caso concreto. Pertanto, conclude la Suprema Corte, dal medico di alta specializzazione ed inserito in una struttura di eccellenza è esigibile una diligenza più elevata di quella esigibile, dinanzi al medesimo caso clinico, da parte del medico con minore specializzazione od inserito in una struttura meno avanzata (Cass. III, n. 22222/2014, in senso conforme anche la precedente Cass. III, n. 17143/2012, cit.). Il principio appena enunciato, trattandosi sempre di responsabilità per colpa e non oggettiva, implica l'assenza di responsabilità in capo al primario ospedaliero, in ferie al momento del contatto sociale, del ricovero e dell'intervento, con riferimento alle lesioni subite da un paziente della struttura ospedaliera solo per il suo ruolo di dirigente. Nell'evoluzione giurisprudenziale intorno al contatto sociale ed alla coesistenza tra la funzione apicale del reparto e la sua organizzazione, la responsabilità civile attiene infatti all'imputabilità soggettiva dell'inadempimento, nella specie ritenuto mancante (Cass. III, n. 6438/2015). Proprio seguendo la prospettiva di cui innanzi, Cass. III, n. 22338/2014, posto che l'esecuzione della prestazione professionale implica una diligenza qualificata ai sensi del secondo comma dell'art. 1176 c.c., ha ritenuto in colpa il medico che, in presenza di un paziente non adeguatamente curabile nella struttura ospedaliera ove era stato ricoverato, omise di attivarsi per tentare di disporne il trasferimento in altra più idonea struttura, precisando che il primario ospedaliero risponde del danno derivato da una inadeguatezza della struttura sanitaria da lui diretta ove non dimostri di aver adempiuto a tutti gli obblighi che gli impone l'art. 7 del d.P.R. n. 128/1969 – applicabile ratione temporis –, tra i quali rientra quello di informazione sulle condizioni dei malati e di predisposizione di adeguate istruzioni al personale per le emergenze. Ai sensi del citato art. 7, difatti, il primario ospedaliero ha la responsabilità dei malati della divisione (per i quali ha l'obbligo di definire i criteri diagnostici e terapeutici, che gli aiuti e gli assistenti devono seguire), sicché, deve avere puntuale conoscenza delle situazioni cliniche che riguardano tutti i degenti, a prescindere dalle modalità di acquisizione di tale conoscenza (con visita diretta o interpello degli altri operatori sanitari), essendo obbligato ad assumere informazioni precise sulle iniziative intraprese dagli altri medici cui il paziente sia stato affidato, indipendentemente dalla responsabilità degli stessi, tanto al fine di vigilare sulla esatta impostazione ed esecuzione delle terapie, di prevenire errori e di adottare tempestivamente i provvedimenti richiesti da eventuali emergenze (Cass. III, n. 24144/2010). Sulla scia interpretativa di cui innanzi, Cass. sez. III, n. 6386/2023, in tema di infezioni nosocomiali, ha chiarito che per andare esente da responsabilità, sotto il profilo soggettivo, il dirigente apicale è tenuto a dimostrare di avere indicato le regole cautelari da adottarsi, in attuazione del proprio potere-dovere di sorveglianza e verifica; il direttore sanitario di averle attuate e avere organizzato gli aspetti igienico e tecnicosanitari, vigilando altresì sull'attuazione delle indicazioni fornite; il dirigente di struttura complessa, esecutore finale dei protocolli e delle linee-guida, di avere collaborato con gli specialisti microbiologo, infettivologo, epidemiologo e igienista, essendo tenuto ad assumere precise informazioni sulle iniziative degli altri medici ovvero a denunciare le eventuali carenze della struttura. Per converso, la Suprema Corte ha confermato la decisione con la quale il giudice di merito aveva ravvisato la responsabilità di un aiuto primario di ostetricia che, accertato il grave stato di sofferenza del feto sulla base delle inequivocabili risultanze dell'esame del tracciato cardiotocografico e di quello amnioscopico, a dispetto dell'estrema urgenza dell'intervento, ometteva di procedere – in attesa dell'arrivo del primario – all'esecuzione del parto cesareo, di per sé eseguibile anche da un solo medico con l'ausilio di uno strumentista. Il contegno dell'aiuto primario che, in caso di assenza o impedimento del primario, ometta di eseguire un intervento chirurgico urgente viola difatti gli obblighi su di esso gravanti, i quali includono non solo quello di attivarsi secondo le regole dell'arte medica, avuto riguardo al suo standard professionale di specialista, ma anche di salvaguardare, ai sensi dell'art. 1375 c.c., la vita del paziente (Cass. III, n. 7682/2015). Al professionista (ancor più se specialista), difatti, precisa la Suprema Corte, è richiesta a una diligenza «particolarmente qualificata» dalla perizia e dell'impiego di strumenti tecnici adeguati al tipo di attività da espletare e ed allo standard professionale della categoria di appartenenza. L'impegno dovuto dal professionista, pur se superiore a quello del comune debitore, va considerato corrispondente alla diligenza normale in relazione alla specifica attività professionale o lavorativa esercitata in quanto deve impiegare perizia e mezzi tecnici di cui allo standard di categoria. Sicché, è proprio il detto standard che concorre a determinare il contenuto della perizia dovuta e la corrispondente misura dello sforzo di diligenza adeguato per conseguirlo oltre che del relativo grado di responsabilità (Cass. III, n. 7682/2015, cit.; sul punto si veda, più di recente, Cass. III, n. 11208/2017, con particolare riferimento alla diligenza esigibile, ex art. 1176, comma 2 c.c., da una struttura sanitaria altamente specializzata nell'attività da compiere, anche con riferimento al contenuto dell'obbligo di informazione al fine di garantire la libertà di autodeterminazione del paziente). Nel detto concetto di diligenza qualificata rientrerebbero poi, per giurisprudenza dominante, anche i c.d. obblighi intermedi, tra i quali l'obbligo di informazione, anche se una parte della giurisprudenza non li colloca nell'ambito dell'oggetto della prestazione d'opera professionale, ritenendoli rilevanti quali obblighi di buona fede oggettiva o correttezza, in forza di un generale principio di solidarietà sociale (art. 2 Cost.) che, se violato, implica il sorgere di responsabilità (contrattuale ma anche, in ipotesi, extracontrattuale). I detti obblighi, in particolare, per tale ultima giurisprudenza, si concretizzerebbero anche nel mantenere un comportamento leale, osservando obblighi di informazione e di avviso nonché di salvaguardia dell'utilità altrui, nei limiti dell'apprezzabile sacrificio, dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità in ordine a falsi affidamenti anche solo colposamente ingenerati da terzi. Proprio con riferimento alla responsabilità professionale del medico si veda, circa la riconducibilità agli obblighi di buona fede oggettiva o correttezza, ex art. 1375 c.c., si veda la citata Cass. III, n. 7682/2015 (sempre per la riconducibilità all'art. 1375 c.c., in tema di responsabilità del notaio, si veda Cass. III, n. 16990/2015; in termini generali, in ordine ai limiti dell'appezzabile sacrificio, Cass. S.U., n. 28056/2008). Argomentando, ex art. 1176 comma 2 c.c., dalla diligenza non del buon padre di famiglia bensì quella del debitore qualificato, da intendersi nei termini innanzi chiariti, Cass. III, n. 2334/2011 ha ritenuto non correttamente motivata la sentenza di merito la quale aveva escluso la responsabilità del ginecologo per danni neurologici patiti dal neonato in occasione del parto, senza valutare se il ginecologo potesse essere ritenuto responsabile per avere indirizzato la gestante presso una struttura (privata) carente di un centro di rianimazione neonatale, per aver omesso di adottare un programma di adeguato monitoraggio cardiotocografico, nonostante l'esistenza di sintomi di sofferenza fetale, e per aver omesso di vigilare sulla tempestività delle cure somministrate al neonato dal neonotalogo-pediatra e dall'anestesista rianimatore, presenti al parto. Con particolare riferimento alla responsabilità medica inerente l'attività in equipe, la Suprema Corte ha chiarito che il relativo principio dell'affidamento non deve essere inteso in senso assoluto bensì temperato dalla ricorrenza di evenienze di fatto in cui l'errore medico o comunque la discrasia fra la sua condotta e gli standard di riferimento sia palese e renda pertanto esigibile l'intervento correttivo di altro medico, ancorché non specialista nel medesimo ambito, che operi in posizione coordinata. In tema di responsabilità professionale la relazione tra gli artt. 1176 e 2236 c.c. è di integrazione per complementarietà e non già per specialità, cosicché vale come regola generale quella della diligenza del buon professionista (art. 1176, comma 2, c.c.), con riguardo alla natura dell'attività prestata. Nel caso in cui la prestazione implichi invece la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà opera la successiva norma dell'art. 2236 c.c., delimitando la responsabilità professionale al dolo o alla colpa grave e non anche alla colpa lieve. Sicché, solo attraverso l'integrazione delle due citate norme potrà operarsi una valutazione complessiva della condotta del professionista. Tale rapporto è tradizionalmente letto dalla Suprema Corte nel senso che la responsabilità del medico in ordine al danno subito dal paziente presuppone la violazione dei doveri inerenti allo svolgimento della professione, tra cui il dovere di diligenza da valutarsi in riferimento alla natura della specifica attività esercitata, che comporta anche il rispetto degli accorgimenti e delle regole tecniche obbiettivamente connesse all'esercizio della professione e ricomprende, pertanto, anche la perizia. Argomentando nei detti termini la giurisprudenza di legittimità fa rientrare nei doveri inerenti lo svolgimento della professione medica anche quello di sorvegliare sulla salute del soggetto operato anche nella fase postoperatoria (si vedano, ex plurimis: Cass. III, n. 3492/2002; Cass. III, n. 3492/2000, negli stessi termini della precedente; Cass. III, n. 4852/1999; con particolare riferimento alla responsabilità professionale dell'avvocato, Cass. III, n. 499/2001). La limitazione di responsabilità di cui all'art. 2236 c.c. opera solo ove il caso concreto richieda un impegno intellettuale superiore a quello professionale medio, con conseguente presupposizione di preparazione e dispendio di attività anche esse superiori alla media. La distinzione fra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà rileva quindi soltanto ai fini della valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, spettando invece al sanitario, che invochi la limitazione di responsabilità in esame, la prova della particolare difficoltà della prestazione, in conformità con il principio di generale «favor» per il creditore danneggiato cui l'ordinamento è informato. Per esso il paziente che agisce in giudizio, deducendo l'inesatto adempimento dell'obbligazione sanitaria, deve difatti provare il contratto ed allegare l'inadempimento del professionista, restando a carico dell'obbligato l'onere di provare l'esatto adempimento. In applicazione del principio di cui innanzi, la Suprema Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva respinto la domanda di risarcimento danni di una paziente per la lesione di una corda vocale conseguente ad un intervento di tiroidectomia, ritenendolo, da un lato, di non facile esecuzione ed omettendo, dall'altro, di valutare la condotta del medico specialista alla stregua del criterio di cui all'art. 1176 comma 2 c.c. (Cass. III, n. 22222/2014, cit.; sembrerebbe opinare in senso difforme, circa l'onere della prova della speciale difficoltà di cui all'art. 2236 c.c., ancorché antecedentemente agli arresti delle Sezioni Unite del 2001 e del 2008 circa il principio di «vicinanza della prova», Cass. III, n. 2044/2000). La giurisprudenza di legittimità chiarisce però che la limitazione della responsabilità alla sola colpa grave (oltre che al dolo), di cui all'art. 2236 c.c., opera con riferimento al solo parametro della perizia. Ciò è affermato, proprio in tema di limitazione della responsabilità professionale medica ritenendo che essa, a norma dell'art. 2236 c.c., si applichi nelle sole ipotesi che presentino problemi tecnici di particolare difficoltà e che, in ogni caso, attenga esclusivamente all'imperizia, non all'imprudenza ed alla negligenza. Ne consegue che risponde anche per colpa lieve il professionista che, nell'esecuzione di un intervento o di una terapia medica, provochi un danno per omissione di diligenza – o per comportamento imprudente (ex plurimis: Cass. III, n. 4797/2007; Cass. III, n. 9085/2006, nella specie, relativa alla paraplegia conseguita in danno di un paziente sottoposto a intervento di lombo sciatalgia-emilaminectomia, la Suprema Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva ricondotto all'ipotesi di negligenza un errore diagnostico, l'omesso ricorso ad indagini strumentali e la gestione dei tempi dell'emergenza medico-chirurgica, con conseguente non operatività della limitazione di responsabilità in oggetto; Cass. III, n. 11440/1997). In applicazione del principio di cui innanzi la Corte di Cassazione ha in particolare ritenuto che il medico risponda dei danni conseguenti alla violazione, per negligenza, del dovere di informazione del paziente sui possibili esiti dell'intervento chirurgico, al quale egli è tenuto in ogni caso ed in special modo in quello di interruzione volontaria della gravidanza, in cui il diritto della paziente alla informazione è espressamente sancito dall'art. 14 della l. 22 maggio 1978, n. 194. Nel caso concreto il sanitario di un ospedale non aveva informato la paziente, sottoposta ad intervento abortivo, del possibile esito negativo dell'intervento e della conseguente necessità di un controllo istologico per l'accertamento di tale esito, determinando il disinteresse della paziente, la quale solo quando l'intervento abortivo non poteva essere più ripetuto si era accorta dell'insuccesso, così trovandosi nella necessità di portare a termine la gravidanza indesiderata (Cass. III, n. 6464/1994). La limitazione di responsabilità alle ipotesi di dolo e colpa grave di cui all'art. 2236 comma 2 c.c. ricorre soltanto per i casi implicanti risoluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà che trascendono la preparazione media o non ancora sufficientemente studiati dalla scienza medica. Suprema Corte, movendo dal detto assunto, ha ritenuto immune da vizi la sentenza di merito che, in un caso di «grave sofferenza perinatale con danno cerebrale», aveva escluso l'applicabilità della limitazione di responsabilità ed affermato la responsabilità del medico ginecologo – ostetrico che, per aver omesso di praticare tempestivamente il taglio cesareo e per aver indugiato nel disporre perfusioni ossitociche in presenza di una dilatazione anomala, aveva colposamente condotto la partoriente ad una complicanza finale che imponeva la scelta tecnica di particolare difficoltà dell'applicazione della ventosa, che implicava ulteriore ritardo per reperire altro chirurgo e un anestesista. Nella specie il Giudice di legittimità ha altresì ritenuto sussistente la concorrente responsabilità della casa di cura per essersi dotata di attrezzature non funzionanti, per non aver predisposto terapie di rianimazione adeguate e per aver tardato il trasferimento in struttura pubblica. Negli evidenziati termini si esprime in particolare Cass. III, n. 4852/1999, cit., la quale precisa altresì che spetta al medico provare che la particolare difficoltà del caso ed al paziente quali siano le modalità di esecuzione inidonee ovvero a questi spetta provare la facile esecuzione dell'intervento ed al medico che l'insuccesso prescinde sa un suo difetto di diligenza. È stata altresì ritenuta correttamente motivata la decisione di merito che aveva qualificato in termini di colpa grave la condotta del medico ostetrico che, dinanzi ad un arresto della progressione del feto al momento del parto, aveva atteso più di tre ore prima di predisporre ed effettuare un intervento cesareo (Cass. III, n. 5881/2000). Per converso, non è stata ritenuta operante la limitazione di responsabilità in esame, per i danni riportati da un neonato in seguito a sofferenza anossica cerebrale, evitabile con un tempestivo parto cesareo, nel caso di primario del reparto che aveva omesso, violando gli schemi della normale pratica ostetrica, di impostare un programma di monitoraggio assiduo del travaglio di una partoriente (per venti minuti all'inizio del medesimo, poi ogni trenta minuti per una durata di cinque minuti, e nell'ultimo periodo del travaglio ogni cinque minuti). Tale programma di monitoraggio sarebbe stato difatti preordinato ad intervenire tempestivamente, con un taglio cesareo, all'insorgere di sofferenza fetale; di impartire direttive precise di controllo cardiotocografico al suo assistente in caso di sua assenza dal reparto e di vigilare sull'esatta esecuzione delle medesime (Cass. III, n. 6822/2001). Le conclusioni di cui innanzi si argomentano dall'assunto per il quale il primario ospedaliero, ai sensi dell'art. 7 d.P.R. 27 marzo 1969 n. 128, ha la responsabilità dei malati della divisione, per i quali ha l'obbligo di definire i criteri diagnostici e terapeutici che gli aiuti e gli assistenti devono seguire e di vigilare, come è desumibile anche dall'art. 63 d.P.R. 20 dicembre 1979 n. 761, sull'esatta esecuzione da parte dei medesimi. Pertanto, la condotta di cui innanzi è caratterizzata da negligenza, per la quale non opera la limitazione prevista dall'art. 2236 comma 2 c.c. Il prestatore d'opera, in particolare il medico, che versi in colpa per un'errata scelta tecnica, che all'origine si poneva come di semplice soluzione, non può poi più avvalersi della delimitazione della propria responsabilità per solo dolo o colpa grave, ai sensi dell'art. 2236 c.c., per gli eventuali problemi tecnico-professionali di speciale difficoltà in cui sia incorso nel prosieguo dell'espletamento della tecnica operativa errata. Ne consegue, in tal caso, anche l'irrilevanza della difettosa tenuta della cartella clinica che, ove risulti provata l'idoneità della condotta a provocare il danno alla salute, non vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico con la colposa condotta del medico, in relazione alla patologia accertata ed al danno subito alla salute. Nei suddetti termini statuisce Cass. III, n. 583/2005, confermando la sentenza di merito che aveva ritenuto errata la scelta tecnica ed erronea la valutazione del parto, essendo rimasto accertato, attraverso la espletata consulenza tecnica, che l'originaria paralisi del neonato era stata conseguenza di un'errata manovra da parte del medico nella fase espulsiva del feto e dell'applicazione della ventosa, con una trazione ed entità di forza incongrua. La Suprema Corte sottolinea però la necessità di esaminare la fattispecie concreta, più che con riferimento alla negligenza ed imprudenza, sotto il profilo della perizia, comportando l'adozione di una tecnica di parto errata, in relazione alle circostanze concrete ed in relazione ad un caso che non importava problemi tecnici di speciale difficoltà. L'errata scelta iniziale della soluzione operativa che si presentava semplice ha quindi costituito un antecedente dotato in concreto di efficienza causale, scaturente dal comportamento colpevole del prestatore d'opera professionale, anche per l'insorgenza dei problemi tecnici successivi e per l'evento dannoso conclusivo. L'evoluzione del ragionamento di cui innanzi porta a ritenere che qualora, nel corso di un trattamento terapeutico o di un intervento, emerga una situazione la cui evoluzione possa comportare rischi per la salute del paziente, il medico che abbia a disposizione metodi idonei ad evitare il verificarsi della situazione pericolosa è tenuto ad impiegarli, essendo suo dovere professionale applicare metodi che salvaguardino la salute del paziente, preferendoli a quelli che possano anche solo esporla a rischio. Sicché, ove egli privilegi il trattamento più rischioso e la situazione pericolosa si determini, non riuscendo egli a superarla senza danno, la colpa si radica già nella scelta inizialmente compiuta. In applicazione di tale principio Cass. III, n. 19213/2015 ha cassato la sentenza impugnata che aveva ritenuto esente da colpa un medico in relazione alla scelta compiuta di sottoporre un paziente, affetto da «paraparesi spastica», ad intervento di ernia discale per via transarticolare, in luogo del meno rischioso intervento anteriore alla colonna attraverso toracotomia destra, con determinazione della situazione pericolosa connessa al detto rischioso intervento e conseguente necessità di un secondo intervento, attraverso toracotomia, all'esito del quale era residuata una lesione dell'integrità psico-fisica stimata pari al 68 per cento. L'operatività della limitazione della responsabilità di cui all'art. 2236 c.c. alla sola ipotesi dell'imperizia, è avallata anche dalla Consulta (Corte cost. n. 166/1973) la quale, nel ritenere infondata, in relazione all'art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 589 e 42 c.p., nella parte in cui consentono che nella valutazione della colpa professionale il giudice attribuisca rilevanza penale soltanto a gradi di colpa di tipo particolare. La Corte Costituzionale precisa che il differente trattamento giuridico riservato al professionista, la cui prestazione d'opera implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, e ad ogni altro agente che non si trovi nella stessa situazione non può dirsi collegato puramente e semplicemente a condizioni (del soggetto) personali o sociali. La deroga alla regola generale della responsabilità penale per colpa ha difatti in sé una sua adeguata ragione di essere e poi risulta ben contenuta, in quanto è operante, ed in modo restrittivo, in tema di perizia e questa presenta contenuto e limiti circoscritti. La limitazione di responsabilità di cui all'art. 2236 c.c., alle sole ipotesi di dolo o colpa grave in caso di prestazione implicante risoluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, infine, riguarda soltanto la competenza tecnica, applicandosi, di conseguenza, alle sole ipotesi di imperizia e non anche di imprudenza e negligenza (Zana, 1991, 4; Zana, 1987, 162, il quale evidenzia che l'art. 2236 c.c. integra la codificazione di una regola giurisprudenziale consolidatasi nella vigenza del precedente codice, facendo riferimento anche a Cass. S.U., 8 marzo 1937; Perulli, 592, che evidenzia la necessità, nell'applicazione delle norme di cui all'art. 2236 c.c., di considerare l'esistenza di specializzazioni in determinate materie, negli stessi termini, in precedenza ma con particolare riferimento al professionista legale, Pensa, 39). Tale limitazione non opera, peraltro, nel caso di professionista generico che consapevolmente, nella risoluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, non consulti il professionista specialista, salvo che la stessa difficoltà non sia riconoscibile dal professionista medio o non sia possibile ricorrere allo specialista ovvero che la difficoltà comunque sussista anche per i professionisti di livello superiore a quello medio (Cattaneo, 76). La stessa definizione di speciale difficoltà, riferita ai problemi tecnici di cui al citato art. 2236 c.c., non è definibile in termini generali ed astratti ma solo con riferimento al caso concreto ed in merito alla qualificazione soggettiva del professionista (Giacobbe, 1084). Sicché, il rapporto tra le due norme, gli artt. 1176 comma 2 e 2236 c.c., deve intendersi in termini non di specialità bensì di complementarietà, cioè nel senso che le due norme si integrerebbero. Danno: nesso causale e riparto dell'onere probatorioPer la ormai consolidata giurisprudenza di legittimità, la responsabilità (per inadempimento) del prestatore d'opera intellettuale, nella specie professionale del sanitario, per negligente o imperito svolgimento dell'attività professionale presuppone la prova del danno e del nesso eziologico tra la condotta del professionista (da intendersi «inadempimento», in caso di responsabilità contrattuale) ed il pregiudizio del cliente (ex plurimis, tra le più recenti, Cass. III, n. 1121372017, in materia di prestazione d'opera professionale avente ad oggetto la cura della contabilità fiscale). In tema di nesso causale oltre che di riparto dell'onere probatorio, con particolare riferimento alla responsabilità professionale medica (del sanitario e, di conseguenza, della struttura sanitaria presso la quale lo stesso abbia prestato la propria attività), la giurisprudenza, in attuale continua evoluzione, applica le comuni regole caratterizzanti la responsabilità contrattuale, con percorso più evoluto di quello caratterizzante altre ipotesi di responsabilità professionale (tra le quali è annoverabile quella dell'avvocato). In premessa occorre già anticipare, come ha chiarito Cass. III, 1395/2019, che un'accurata ricognizione del complesso rapporto intercorrente tra la fattispecie del nesso causale e quella della colpa, con specifico riferimento ai rispettivi peculiari profili probatori, consente l'enunciazione dei seguenti principi. Il nesso di causalità è elemento strutturale dell'illecito che deve provare l'attore deducente, e pertanto corre – su di un piano strettamente oggettivo e secondo una ricostruzione logica di tipo sillogistico – tra un comportamento (dell'autore del fatto) astrattamente considerato (e non ancora utilmente qualificabile in termini di damnum iniuria datum) e l'evento. Nell'individuazione di tale relazione primaria tra condotta ed evento, si prescinde, in prima istanza, da ogni valutazione di prevedibilità, tanto soggettiva quanto “oggettivata”, da parte dell'autore del fatto, essendo il concetto logico di “previsione” insito nella categoria giuridica della colpa (elemento qualificativo dell'aspetto soggettivo del torto, la cui analisi si colloca in una dimensione temporale successiva in seno alla ricostruzione della complessa fattispecie dell'illecito). Il nesso di causalità materiale tra condotta ed evento è quello per cui ogni comportamento antecedente (prossimo, intermedio, remoto) che abbia generato, o anche solo contribuito a generare, tale obbiettiva relazione con il fatto deve considerarsi “causa” dell'evento stesso. Il nesso di causalità giuridica è, per converso, relazione eziologica per cui i fatti sopravvenuti, di per se soli idonei a determinare l'evento, interrompono il nesso con il fatto di tutti gli antecedenti causali antecedenti. La valutazione del nesso di causalità giuridica, giuridica, tanto sotto il profilo della dipendenza dell'evento dai suoi antecedenti fattuali, quanto sotto l'aspetto dell'individuazione del novus actus interveniens, va compiuta secondo criteri: a) di probabilità scientifica, ove questi risultino esaustivi; b) di logica, se appare non praticabile (o insufficientemente praticabile) il ricorso a leggi scientifiche di copertura. Con l'ulteriore precisazione che nell'illecito omissivo l'analisi morfologica della fattispecie segue un percorso affatto speculare – quanto al profilo probabilistico – rispetto a quello commissivo , dovendosi, in altri termini accertare il collegamento evento/comportamento omissivo in termini di probabilità inversa, onde inferire che l'incidenza del comportamento omesso si pone in relazione non/probabilistica con l'evento (che, dunque, si sarebbe probabilmente avverato anche se il comportamento fosse stato posto in essere), a prescindere, ancora, dall'esame di ogni profilo di colpa intesa nel senso di mancata previsione dell'evento e di inosservanza di precauzioni doverose da parte dell'agente (si vedano a questo riguardo anche: Cass. III, n. 23197/2018; Cass. III, n. 3704/2018; Cass. III, n. 7997/2005). Nesso causale Con particolare riferimento all'accertamento del nesso causale (materiale), invero, il giudizio civile non è informato al «principio fondamentale» in base al quale «solo una certezza o un'alta percentuale probabilistica» possono fondare la responsabilità, bensì al criterio, che si fonda sulla relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, della «preponderanza dell'evidenza» o «del più probabile che non» (anche detto della «probabilità relativa»), ispirato alla regola della «normalità causale». Per converso, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi, quello penale e quello civile, nel processo penale vige la regola della «prova oltre il ragionevole dubbio», cioè «dell'elevato grado di credibilità razionale prossimo alla certezza» (ex plurimis, per la regola della «preponderanza dell'evidenza» o «del più probabile che non», con particolare riferimento alla responsabilità medica, tra le più recenti: Cass. III, n. 7768/2016, cit.; Cass. III, n. 11789/2016; Cass. III, n. 19213/2015; nello stesso senso, tra le tante: Cass. III, n. 12686/2011; Cass. III, n. 3847/2011; Cass. III, n. 21619/2007). Precisano difatti le Sezioni Unite, proprio con riferimento alla responsabilità della struttura sanitaria (nella specie, per danno da emotrasfusioni), che in tema di responsabilità civile aquiliana, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata. In forza di esso, all'interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano – ad una valutazione ex ante – del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi. Nell'accertamento del nesso causale in materia civile vige, difatti, la regola della preponderanza dell'evidenza o del «più probabile che non» mentre nel processo penale vige la regola della prova «oltre il ragionevole dubbio» Proprio in applicazione del detto principio, in particolare, il Supremo Consesso, ha affermato la responsabilità dell'allora Ministero della sanità (poi divenuto Ministero della salute), sul quale grava l'obbligo di controllo e di vigilanza in materia di raccolta e distribuzione di sangue umano per uso terapeutico, per omessi controllo e vigilanza, da accertarsi con riferimento alle cognizioni scientifiche esistenti all'epoca di produzione del preparato, in merito all'accertata esistenza di una patologia da virus Hiv, Hbv o Hcv in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati. In particolare, in assenza di altri fattori alternativi, è stata ritenuta la detta omissione causa dell'insorgenza della malattia, laddove, per converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito il verificarsi dell'evento (cfr., Cass. S.U., n. 576/2008; per il nesso di causalità nel processo penale si veda, ex plurimis, Cass. pen. S.U., n. 30328/2002). Già antecedentemente al detto arresto delle Sezioni Unite, la Suprema Corte chiarisce che, nel cosiddetto sottosistema civilistico, il nesso di causalità (materiale) consiste anche nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio (ispirato alla regola della normalità causale) del «più probabile che non». Esso si distingue dall'indagine diretta all'individuazione delle singole conseguenze dannose (finalizzata a delimitare, a valle, i confini della già accertata responsabilità risarcitoria) e prescinde da ogni valutazione di prevedibilità o previsione da parte dell'autore, la quale va compiuta soltanto in una fase successiva ai fini dell'accertamento dell'elemento soggettivo (colpevolezza). In applicazione del principio è stata confermata la sentenza che aveva ravvisato il nesso causale tra il comportamento omissivo del sanitario, che aveva ritardato di inviare il paziente presso un centro di medicina iperbarica, e l'aggravamento delle lesioni subite dal paziente che probabilmente avrebbe potuto essere evitato (Cass. III, n. 21619/2007, cit.). Le suddette differenze tra processo civile e processo penale, proprio in merito al diverso atteggiarsi sia dell'elemento della colpa che delle modalità di accertamento del nesso di causalità materiale (che in sede civile ha valenza normativa ed in materia penale naturalistica), caratterizzano altresì i rapporti tra i due giudizi. Ciò implica l'assoluzione dell'imputato secondo la formula «perché il fatto non sussiste» non preclude la possibilità di pervenire, nel giudizio di risarcimento dei danni intentato a carico dello stesso, all'affermazione della sua responsabilità civile. In applicazione del principio, la Suprema Corte ha annullato la decisione con la quale il giudice di merito, sul presupposto dell'intervenuta assoluzione, in via definitiva, di due medici dal delitto di lesioni personali, ne aveva per ciò solo escluso la responsabilità civile, ai sensi dell'art. 652 c.p.p. Nella specie era stata difatti omessa la valutazione dell'incidenza del loro contegno rispetto sia alla lamentata lesione dell'autonomo dritto del paziente ad esprimere un consenso informato in ordine al trattamento terapeutico praticatogli, sia all'accertata mancata disinfezione della camera operatoria, all'origine della contaminazione ambientale individuata come causa del danno alla salute dal medesimo subito (Cass. III, n. 8035/2016). Per un riferimento al criterio di cui innanzi in merito alla responsabilità della struttura sanitaria si veda altresì, ex plurimis, Cass. III, n. 5487/2019. Per essa, in particolare, l'accertamento del nesso causale va condotto attraverso una ricostruzione non atomistica della complessiva condotta omissiva della struttura sanitaria indicata dall'attore come idonea a cagionare l'evento, in modo che il singolo episodio sia considerato e valutato come inserito in una sequenza più ampia e coerente. Nella specie, proprio in applicazione del principio, la S.C. ha cassato la sentenza che aveva operato una parcellizzazione dei singoli episodi dell'unitario contegno omissivo addebitato alla struttura, concentrandosi soltanto sull'ultimo episodio ed ignorando del tutto i due precedenti nonché le risultanze dell'elaborato peritale, predisposto in sede penale, senza valutare se, nell'insieme, tutti gli elementi unitariamente considerati fossero idonei all'accertamento del nesso causale tra l'omessa diagnosi di patologia cardiaca e l'intervenuto decesso dal paziente per attacco ischemico, secondo il principio del "più probabile che non". Parte della dottrina manifesta forti perplessità in merito all'operatività del principio del «più probabile che non», non essendo il nesso causale adeguatamente descritto da criteri che esprimono una correlazione probabilistica (Taruffo, 113). Si ritiene altresì che il giudice civile non possa accontentarsi di una «minore» certezza probatoria, apparendo ciò in contrasto con il principio che richiede comunque l'accertamento del fatto per il quale il soggetto è condannato (Bianca, 2011, 133). Autorevole dottrina, propugnando la tesi del rischio specifico, evidenzia che le norme che sanciscono la responsabilità di chi «cagiona» il danno (artt. 2043 e ss. c.c.) sono suscettibili di essere interpretate nel senso che il nesso eziologico tra danno e fatto sussiste quando il danno è la realizzazione di un rischio specifico creato da quel fatto. Tale criterio non escluderebbe ma integrerebbe quello della regolarità causale (o normalità causale), per il quale il nesso eziologico è accertato se il danno è la normale conseguenza di un fatto. Sicché, nel caso in cui il danno non risulti essere la normale conseguenza di un fatto, il nesso causale deve ritenersi comunque sussistente nel caso in cui il danno realizzi il rischio specifico creato da quel fatto (Bianca, 2012, 146). Il ricorso alla teoria del rischio specifico, integratrice del criterio della normalità o regolarità causale, sembra emergere anche nella giurisprudenza di legittimità, con particolare riferimento, per quanto rileva ai presenti fini, alla responsabilità della struttura sanitaria, per esercizio di attività pericolosa, qual è quella consistente in emotrasfusioni. In tema di responsabilità extracontrattuale per danno causato da attività pericolosa da emostrasfusione, la prova del nesso causale, che grava sull'attore danneggiato, tra la specifica trasfusione ed il contagio da virus Hcv, ove risulti provata l'idoneità di tale condotta a provocarla, può essere difatti fornita anche con il ricorso alle presunzioni (art. 2729 c.c.), allorché la prova non possa essere data per non avere la struttura sanitaria predisposto, o in ogni caso prodotto, la documentazione obbligatoria sulla tracciabilità del sangue trasfuso al singolo paziente, e cioè per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato. Le Sezioni Unite, nello statuire quanto innanzi evidenziato, hanno precisano che nella specie il nesso causale è stato provato non sulla base della sola prova della causalità generale, essendo invece risultata anche la causalità specifica, ancorché in base a prova presuntiva (Cass. S.U., n. 582/2008; Cass. S.U., n. 584/2008). In senso conforme, più di recente, anche Cass. III, n. 5961/2016 che, proprio in applicazione del principio, ha cassato la decisione di rigetto della domanda risarcitoria (per contagio da virus Hcv) proposta da un soggetto sottoposto a più di trenta infusioni di plasma, otto delle quali eseguite all'estero. Trattasi di rigetto motivato sull'erroneo rilievo che, sebbene fosse stato accertato che quattro delle infusioni effettuate in Italia fossero rimaste non tracciabili, costituendo così, a dire della stessa sentenza impugnata, «in astratto possibile veicolo di contagio», le infusioni compiute all'estero, anch'esse non tracciabili, presentavano «una maggiore probabilità» di aver causato il contagio. Sempre alla teoria del rischio specifico sembra fare ricorso anche Cass. III, n. 19213/2015, cit. La Suprema Corte difatti cassa la sentenza impugnata che aveva ritenuto esente da colpa un medico in relazione alla scelta compiuta di sottoporre un paziente, affetto da «paraparesi spastica», ad intervento di ernia discale per via transarticolare, in luogo del meno rischioso intervento anteriore alla colonna attraverso toracotomia destra, con determinazione della situazione pericolosa connessa al detto rischioso intervento e conseguente necessità di un secondo intervento, attraverso toracotomia, all'esito del quale era residuata una lesione dell'integrità psico-fisica stimata pari al 68 per cento. Tra le più recenti applicazioni in materia di responsabilità medica del principio della «preponderanza dell'evidenza» (altrimenti definito anche del «più probabile che non»), si veda anche Cass. III, n. 11789/2016, per la quale l'affermazione della responsabilità del medico per i danni cerebrali da ipossia patiti da un neonato, ed asseritamente causati dalla ritardata esecuzione del parto, esige la prova – che deve essere fornita dal danneggiato – della sussistenza di un valido nesso causale tra l'omissione dei sanitari ed il danno. Essa è da ritenere sussistente quando, da un lato, non vi sia certezza che il danno cerebrale patito dal neonato sia derivato da cause naturali o genetiche e, dall'altro, «appaia più probabile che non» che un tempestivo o diverso intervento da parte del medico avrebbe evitato il danno al neonato. Sicché, fornita tale prova in merito al nesso di causalità, è onere del medico, ai sensi dell'art. 1218 c.c., dimostrare la scusabilità della propria condotta (nello stesso senso, peraltro in fattispecie analoga, Cass. III, n. 12686/2011, cit.). La corretta applicazione del criterio in esame implica però una valutazione della idoneità della condotta del sanitario a cagionare il danno lamentato che deve essere correlata alle condizioni del paziente, nella loro irripetibile singolarità. Tanto che, Cass. III, n. 3390/2015 ha ritenuto immune da vizi logici la decisione con cui il giudice di merito aveva affermato la responsabilità di una struttura sanitaria, in relazione alla paralisi degli arti inferiori subita da un paziente sottoposto ad un intervento di trombectomia, per essere stato omesso un trattamento preventivo a base di eparina, sebbene lo stesso non fosse previsto da alcun protocollo ma solo raccomandato in via precauzionale nella letteratura scientifica perché in astratto idoneo a prevenire tale complicanza, attesa l'oggettiva gravità del rischio, sul piano causale, a carico del paziente per le sue particolari condizioni personali, trattandosi di soggetto fumatore, affetto da diabete e, verosimilmente, da vascolopatia. L'opera della giurisprudenza di legittimità volta a chiarire le esatte modalità applicative del criterio cardine in tema di causalità civile, con particolare riferimento al settore della responsabilità medica, è ulteriormente evidenziata da opportuni chiarimenti inerenti la valutazione degli esiti della consulenza tecnica d'ufficio. Quest'ultima, non essendo qualificabile come mezzo di prova in senso proprio, perché volta ad aiutare il giudice nella valutazione degli elementi acquisiti o nella soluzione di questioni necessitanti specifiche conoscenze, è sottratta alla disponibilità delle parti ed affidata al prudente apprezzamento del giudice di merito. Questi può affidare al consulente non solo l'incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti (consulente deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (consulente percipiente), ed in tal caso è necessario e sufficiente che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l'accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche (ex plurimis, Cass. III, n. 6155/2009, Cass. III, n. 3990/2006). Con particolare riferimento alla materia della responsabilità medica, la giurisprudenza di legittimità chiarisce ulteriormente che, attesa l'innegabilità delle conoscenze tecniche specialistiche, necessarie non solo alla comprensione dei fatti ma alla loro stessa rilevabilità, la consulenza tecnica presenta carattere «percipiente», sicché il giudice può affidare al consulente non solo l'incarico di valutare i fatti accertati ma anche quello di accertare i fatti medesimi, ponendosi pertanto la consulenza, in relazione a tale aspetto, come fonte oggettiva di prova (Cass. III, n. 4792/2013). Cass. III, n. 22225/2014, però precisa che, nel caso in cui la consulenza tecnica d'ufficio – che pure di norma presenta nell'ambito in esame natura «percipiente» – formuli una valutazione, sull'efficienza eziologica della condotta della struttura sanitaria rispetto all'evento di danno come «meno probabile che non», tale esito è correttamente ignorato dal giudice. In applicazione del criterio della regolarità causale e della certezza probabilistica, l'affermazione della riferibilità causale del danno all'ipotetico responsabile presuppone, difatti, all'opposto, una valutazione nei termini di «più probabile che non». La Suprema Corte precisa ulteriormente che, nel caso in cui la condotta attiva od omissiva del sanitario sia di per se stessa concretamente idonea a determinare l'evento, il difetto di accertamento del fatto astrattamente idoneo ad escludere il nesso causale tra condotta ed evento non può essere invocato, benché sotto il profilo statistico quel fatto sia «più probabile che non», da chi quell'accertamento avrebbe potuto compiere e non l'abbia, invece, effettuato. Proprio in virtù del suddetto chiarimento è stata confermata la sentenza di merito che aveva ritenuto sussistere un nesso di causalità tra la condotta dei medici, i quali avevano ritardato l'esecuzione di un parto cesareo, e la grave asfissia del neonato, reputando irrilevante la pur elevata probabilità statistica che l'asfissia cerebrale potesse avere avuto origine fisiologica in base all'assunto per cui, per escludere con certezza il nesso di causalità tra l'evento e la condotta del sanitario, si sarebbe dovuto disporre di un tracciato cardiotocografico, che i medici stessi avevano però omesso di eseguire nell'imminenza del parto (Cass. III, n. 3847/2011 cit.). Il criterio del «più probabile che non» rileva anche al fine di una peculiare calibrazione dell'onere probatorio in merito ad interventi di «routine» ed in ordine alle conseguenze in tema di riparto dell'onere probatorio. La giurisprudenza di legittimità, difatti, in applicazione di principio consolidato, ritiene che ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e/o del medico per l'inesatto adempimento della prestazione sanitaria, il danneggiato deve fornire la prova del contratto (o del «contatto») e dell'aggravamento della situazione patologica (o dell'insorgenza di nuove patologie per effetto dell'intervento) e del relativo nesso di causalità con l'azione o l'omissione dei sanitari. Restano invece a carico dell'obbligato – sia esso il sanitario o la struttura – la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile. Tuttavia, precisa la Suprema Corte, l'insuccesso o il parziale successo di un intervento di «routine» o, comunque, con alte probabilità di esito favorevole, implica di per sé la prova dell'anzidetto nesso di causalità. Tale nesso, in ambito civilistico, consiste infatti anche nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio, ispirato alla regola della normalità causale, del «più probabile che non» (Cass. III, n. 975/2009). La continua elaborazione giurisprudenziale, soprattutto con riferimento alla responsabilità medica, precisa altresì che, in ragione dell'evidenziata disomogenea morfologia e della disarmonica funzione del torto civile rispetto al reato, nell'accertamento della causalità materiale l'adozione del «criterio della probabilità relativa» o del «più probabile che non» si delinea in un'analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo processo, nella loro irripetibile unicità. Sicché, la concorrenza di cause di diversa incidenza probabilistica deve essere attentamente valutata e valorizzata in ragione della specificità del caso concreto, senza limitazioni ad un meccanico e semplicistico ricorso alla regola del 51% ma facendosi luogo ad una compiuta valutazione dell'evidenza del probabile (ex plurimis, Cass. III, n. 7768/2016, cit., in precedenza si veda Cass. III, n. 15991/2011). Con riferimento infine ai rapporti tra accertamento del nesso causale ed accertamento della colpevolezza, il giudice di merito deve accertare separatamente dapprima la sussistenza del nesso causale tra la condotta illecita e l'evento di danno e solo successivamente valutare se quella condotta abbia avuto o meno natura colposa o dolosa. Ne consegue che, nell'ipotesi di responsabilità del medico, è viziata la decisione che esclude il nesso causale per il solo fatto che il danno non possa essere con certezza ascritto ad un errore del sanitario. Il suddetto nesso deve difatti sussistere non già tra l'errore ed il danno ma tra la condotta ed il danno, mentre la sussistenza dell'eventuale errore rileva sul diverso piano della imputabilità del danno a titolo di colpa (ex plurimis, Cass. III, n. 14759/2007). Dopo aver precisato quanto innanzi, la medesima sentenza, ritiene non indispensabile la dimostrazione di un rapporto di consequenzialità necessaria tra condotta ed evento di danno ma sufficiente la sussistenza di un rapporto di mera probabilità (che definisce scientifica). Ne consegue che il nesso causale può essere ritenuto sussistente non solo quando il danno possa ritenersi conseguenza inevitabile della condotta, ma anche quando ne sia conseguenza altamente probabile e verosimile. Nella specie la Corte di Cassazione ha ritenuto priva di motivazione sufficiente la decisione con la quale il giudice del merito, chiamato ad accertare la natura iatrogena di una frattura pluriframmentaria della testa del femore con conseguente accorciamento dell'arto, aveva rigettato la domanda di risarcimento sul presupposto che il paziente, già prima dell'intervento, presentava una frattura scomposta. In tal modo, per un verso, erano state difatti confuse due patologie diverse (la frattura scomposta e quella pluriframmentaria), non equivalenti sul piano della idoneità causale a produrre l'evento di danno, e, per altro verso, non era stato considerato che non la preesistenza all'intervento della frattura scomposta avrebbe escluso il nesso causale e quindi la responsabilità ma solo la preesistenza della frattura pluriframmentaria. Fermo restando quanto innanzi evidenziato, in merito a condotte omissive, però, l'accertamento del dovere, generico o specifico, che impone la condotta attiva, è funzionale all'apprezzamento dell'omissione già sul piano causale. L'omissione di un certo comportamento rileva, quale condizione determinativa del processo causale dell'evento dannoso, soltanto quando si tratti di omissione di condotta imposta da una norma giuridica specifica (omissione specifica) ovvero in relazione al configurarsi della posizione del soggetto cui si addebita l'omissione, siccome implicante l'esistenza a suo carico di particolari obblighi di prevenzione dell'evento poi verificatosi e, quindi, di un generico dovere di intervento (omissione generica) in funzione dell'impedimento di quell'evento. Sicché, il giudizio relativo alla sussistenza del nesso causale non può limitarsi alla mera valutazione della materialità fattuale ma postula la preventiva individuazione dell'obbligo specifico o generico di tenere la condotta omessa in capo al soggetto. L'individuazione di esso si connota dunque come preliminare all'apprezzamento di una condotta omissiva sul piano della causalità giuridica, nel senso che, se prima non si individua, in relazione al comportamento che non risulti tenuto, il dovere generico o specifico che lo imponga, non è possibile apprezzare l'omissione del comportamento già sul piano causale (Cass. III, n. 12401/2013). Riparto dell'onere probatorio La giurisprudenza di legittimità nell'attualità è giunta a rivisitare la sua impostazione in merito agli effetti, anche in termini di riparto dell'onere probatorio, della distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, con particolare riferimento anche alla materia della responsabilità professionale ed in specie a quella medica. Dalla tradizionale distinzione di cui innanzi si argomentava difatti per sostenere che, nelle obbligazioni di mezzi, essendo aleatorio il risultato, incombesse sul creditore l'onere di provare che il mancato risultato fosse dipeso da scarsa diligenza (o perizia o prudenza) e che, nelle obbligazioni di risultato, per converso, incombesse sul debitore l'onere di provare che il mancato risultato fosse dipeso da causa a lui non imputabile. La distinzione tra le due tipologie di obbligazioni, pur conservando la funzione descrittiva innanzi evidenziata, è invece superata, quanto meno in tema di riparto dell'onere probatorio, già da Cass. S.U., n. 13533/2001, cit., che sancisce il principio della vicinanza della prova, oltre che a partire dalla già citata Cass. S.U., n. 577/2008, con particolare riferimento proprio alla responsabilità professionale medica, nella specie della struttura ospedaliera per danno da emotrasfusione (si veda quanto chiarito nei precedenti paragrafi). La Suprema Corte, con la citata sentenza a Sezioni Unite del 2001, afferma difatti che il meccanismo di ripartizione dell'onere della prova ai sensi dell'art. 2697 c.c., in materia di responsabilità contrattuale, in conformità a criteri di ragionevolezza per identità di situazioni probatorie, di riferibilità in concreto dell'onere probatorio alla sfera di azione dei singoli soggetti e di distinzione strutturale tra responsabilità contrattuale e da fatto illecito, è identico, sia che il creditore agisca per l'adempimento dell'obbligazione, ex art. 1453 c.c., sia che si domandi il risarcimento per inadempimento contrattuale ex art. 1218 c.c., senza che rilevi in alcun modo alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato. In tema di prova dell'inadempimento di una obbligazione, quindi anche nascente da contratto di prestazione d'opera intellettuale (o da «contatto sociale qualificato»), in virtù del principio da ultimo citato, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte. Graverà invece sul creditore convenuto l'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento. Identico criterio di riparto dell'onere della prova è applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l'adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell'eccezione di inadempimento, ex art. 1460 c.c., risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, poiché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l'altrui inadempimento ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell'obbligazione. Anche nel caso in cui sia dedotto non l'inadempimento dell'obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento, per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni, gravando ancora una volta sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto, esatto adempimento. Nell'affermare il principio di diritto che precede, le Sezioni Unite precisano altresì che esso trova un limite nell'ipotesi di inadempimento delle obbligazioni negative, nel qual caso la prova dell'inadempimento stesso è sempre a carico del creditore, anche nel caso in cui agisca per l'adempimento e non per la risoluzione o il risarcimento (Cass. S.U., n. 13533/2001, cit.). Sicché, chiariscono nel 2008 le Sezioni Unite, proprio in applicazione del suddetto principio della vicinanza della prova, che, come detto, prescinde nella sua applicazione dalla dogmatica distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, l'inadempimento rilevante nell'ambito dell'azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni c.d. di comportamento (o di mezzi) non è qualunque inadempimento bensì solo quello causa (o concausa) efficiente del danno. L'allegazione del creditore non può dunque attenere ad un inadempimento qualunque esso sia ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno. Competerà al debitore dimostrare che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno (Cass. S.U., n. 577/2008, cit.; si vedano altresì, nel senso che è qualificato l'inadempimento quando è astrattamente idoneo a provocare, quale causa o concausa efficiente, l'evento di danno, ex plurimis, Cass. III, n. 20547/2014, Cass. III, n. 27855/2013). La natura contrattuale della responsabilità medica (sia della strutture sanitaria che del sanitario, quando per quest'ultimo sia configurabile), implica quindi, sotto il profilo del riparto dell'onere probatorio, che incombe in capo al paziente che agisca in giudizio per il risarcimento del danno l'onere di provare il titolo (il contratto o il «contatto sociale qualificato») e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia ed allegare (quindi non provare) l'inadempimento qualificato del sanitario (cioè astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato). A carico del debitore (struttura sanitaria o medico) resta invece l'onere di dimostrare che la prestazione è stata eseguita in modo diligente, perito e prudente e che, quindi, l'inadempimento non vi è stato ovvero che il mancato o inesatto adempimento è dovuto a causa a sé non imputabile, in quanto determinato da impedimento non prevedibile né prevenibile con la diligenza nel caso dovuta, cioè rapportata alla concreta attività posta in essere ex art. 1176 comma 2 c.c. Il debitore potrà altresì provare che, pur se a lui imputabile, l'inadempimento o l'inesatto adempimento non è stato causalmente rilevante. Sicché, nell'ipotesi sottoposta al vaglio delle dette Sezioni Unite del 2008, avente ad oggetto danno provocato (dalla struttura sanitaria) da contagio per epatite derivante da emotrasfusione con sangue infetto, il danneggiato deve provare il contratto relativo alla prestazione sanitaria ed il danno, oltre che allegare l'inadempienza della struttura convenuta per averlo sottoposto ad emotrasfusione con sangue infetto, il convenuto dovrà invece provare l'adempimento. Nel dettaglio dovrà fornire la prova dell'insussistenza dell'inadempimento, per l'assenza di trasfusione con sangue infetto, ovvero dell'irrilevanza di esso nell'azione risarcitoria proposta, per una qualunque ragione, tra cui quella addotta dall'affezione patologica già in atto nel momento del ricovero. Argomentando nei termini di cui innanzi, Cass. S.U., n. 577/2008, cit., ha cassato la sentenza di merito che, in relazione ad una domanda risarcitoria avanzata da un paziente nei confronti di una casa di cura privata per aver contratto l'epatite C asseritamente a causa di trasfusioni con sangue infetto praticate a seguito di un intervento chirurgico, aveva posto a carico del paziente l'onere di provare che al momento del ricovero egli non fosse già affetto da epatite (si vedano altresì, tra le sentenze che si diffondono sull'argomento e tra le più recenti: Cass. III, n. 7768/2016 cit.; Cass. III, n. 15490/2014; Cass. III, n. 15993/2011, la quale, nella specie, ha confermato la sentenza di merito che, nell'accogliere l'eccezione di inadempimento e la domanda risarcitoria avanzate da un paziente nei confronti di un sanitario, con riguardo all'esecuzione di prestazioni di natura dentistica, aveva escluso che il dentista avesse usato la diligenza e la perizia necessarie nel progettare e nel realizzare gli impianti dentari oggetto di contratto, provocando al paziente lesioni permanenti). In ogni caso di «insuccesso», rispetto a quanto concordato o ragionevolmente prevedibile, incombe dunque sul medico provare che il risultato «anomalo» o anormale rispetto al convenuto esito dell'intervento o della cura, e quindi lo scostamento da una legge di regolarità causale fondata sull'esperienza, dipenda da fatto a se non imputabile, in quanto non ascrivibile alla condotta mantenuta in conformità alla diligenza, perizia e prudenza dovute in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto. Dovrà egli provare che il detto risultato sia evento non prevedibile e non superabile con le adeguate diligenza qualificata e perizia, in base alle conoscenze tecnico-scientifiche del momento, dovendo indicare quale sia stata l'altra e diversa causa imprevista ed imprevedibile e non superabile con l'adeguata diligenza qualificata che ha determinato l'evento di danno. Dovrà sempre il debitore provare la speciale difficoltà del problema tecnico, qualora intenda avvalersi della limitazione di responsabilità di cui all'art. 2236 c.c. (ex plurimis: Cass. III, n. 19213/2015; Cass. III, n. 7768/2013, cit.; Cass. III, n. 15993/2011, cit.). Nei suddetti termini si esprime di recente Cass. III., n. 21782/2015 che, tra l'altro, prende posizione con riferimento ad una particolare fattispecie di (preteso) concorso del fatto colposo del creditore ai fini dell'accertamento della causalità giuridica. Nella specie si trattava di spese per cure e interventi sperimentali effettuati all'estero da un paziente italiano, all'esito della ripetuta ricomparsa di metastasi di una formazione neoplastica, senza l'attivazione da parte sua delle procedure previste dall'art. 14 della l.r. Sicilia 3 giugno 1975, n. 27. Il Giudice di legittimità ha chiarito che le dette spese, che previa attivazione della corretta procedura sarebbero state suscettibili di rimborso, non vanno ascritte alla fattispecie regolata dall'art. 1227 comma 2 c.c., costituendo invece, nel caso concreto, l'ulteriore conseguenza del danno patrimoniale ascrivibile alla condotta dei medici precedentemente intervenuti e consistita nell'erronea diagnosi come «nevo a formazione benigna» di un melanoma, tanto più in caso di assoluta ed urgentissima necessità – oltre che utilità – di tali cure praticate fuori del territorio nazionale. Allorché risulti accertata una condotta negligente che deponga per la responsabilità del medico operante e, conseguentemente, della struttura sanitaria, spetta quindi all'uno e all'altra, in applicazione del principio della «vicinanza della prova» (o di «riferibilità»), provare che il risultato «anomalo» o «anormale», rispetto al convenuto esito dell'intervento, sia dipeso da un evento imprevedibile, non superabile con l'adeguata diligenza (Cass. III, n. 8989/2015). In applicazione del principio, Cass. III, n. 21177/2015 ha confermato la sentenza che aveva escluso la responsabilità del medico per una vaccinazione inoculata per via intramuscolo, eseguita nel rispetto dei protocolli per la localizzazione e le modalità operative dell'iniezione, riconducendo l'evento dannoso al caso fortuito ovvero all'andamento variabile ed imprevedibile del nervo circonflesso, come accertato tramite consulenza tecnica d'ufficio. La Suprema Corte, proprio argomentando dall'assunto per il quale la presunzione di colpa gravante in capo al medico-debitore, ex art. 1218 c.c., nei confronti del paziente che ne invochi la responsabilità professionale, può essere superata dimostrando che l'insuccesso dell'intervento sia dipeso da un evento imprevisto e non prevenibile con l'uso dell'ordinaria diligenza da lui esigibile, ha ritenuto correttamente motivata la sentenza di merito che aveva escluso la responsabilità dei sanitari nel caso di infezione intraoperatoria intervenuta nel corso di parto cesareo trattato con la c.d. tecnica di Stark, per essere stata accertata l'indifferibilità dell'intervento e la sua corretta esecuzione (Cass. III, n. 12274/2011). Circa il rapporti tra responsabilità sanitaria ed art. 1227 c.c., di recente Cass. III, n. 26426/2020, ha chiarito che il paziente che ometta di fornire alcune notizie nel corso dell'anamnesi, senza ricevere specifiche richieste dal medico, non può ritenersi corresponsabile delle carenze informative, verificatesi in quella sede, che hanno poi determinato l'errore diagnostico, perché non rientra tra i suoi obblighi né avere specifiche cognizioni di scienza medica, né sopperire a mancanze investigative del professionista. In applicazione del principio, l'ordinanza da ultimo citata ha cassato la decisione di merito che, accertata la responsabilità dei sanitari per omessa diagnosi della condizione di portatrice sana di talassemia in capo ad una donna in stato di gravidanza, divenuta madre di due gemelle affette da talassemia maior, aveva affermato la concorrente responsabilità di quest'ultima e del di lei marito perché, consapevoli della condizione di portatore sano in capo a quest'ultimo, si erano rivolti ai medici per assicurarsi che non fosse tale anche lei ma, pur essendo a conoscenza di una patologia ematica, definita microcitemia, tra i collaterali della donna, non ne avevano parlato durante l'anamnesi. Le conclusioni di cui innanzi operano, a fortiori, in caso di prestazione professionale medico-chirurgica di «routine» o di facile esecuzione. In tali ipotesi, l'aggravamento della situazione patologica del paziente o l'insorgenza di nuove patologie eziologicamente ricollegabili ad esso comportano, a norma dell'art. 1218 c.c., una presunzione semplice in ordine all'inadeguata o negligente prestazione, spettando all'obbligato – sia esso il sanitario o la struttura – fornire la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo idoneo e che quegli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile, eventualmente in dipendenza di una particolare condizione fisica del paziente, non accertabile e non evitabile con l'ordinaria diligenza professionale (Cass. III, n. 3492/2002). Nelle prestazioni di «routine», in particolare, spetta al professionista altresì superare la presunzione che le complicanze siano state determinate dalla sua responsabilità (omessa o insufficiente diligenza professionale o imperizia), dimostrando che siano state, invece, prodotte da un evento imprevisto ed imprevedibile secondo la diligenza qualificata in base alle conoscenze tecnico-scientifiche del momento (ex plurimis, Cass. III, n. 12516/2016, Cass. III, n. 17694/2010). Con la conseguenza che il giudice, al fine di escludere la responsabilità del medico nella suddetta ipotesi, non può limitarsi a rilevare l'accertata insorgenza di «complicanze intraoperatorie» dovendo altresì verificare la loro eventuale imprevedibilità ed inevitabilità nonché l'insussistenza del nesso causale tra la tecnica operatoria prescelta e l'insorgenza delle predette complicanze, unitamente all'adeguatezza delle tecniche scelte dal chirurgo per porvi rimedio (Cass. III, n. 20806/2009). Per superare la presunzione di cui all'art. 1218 c.c., difatti, in termini più generali e non limitati agli interventi di «routine», non è sufficiente dimostrare che l'evento dannoso per il paziente costituisca una «complicanza», rilevabile nella statistica sanitaria. Tale nozione, indicativa, nella letteratura medica, di un evento, insorto nel corso dell'iter terapeutico, astrattamente prevedibile ma non evitabile, è difatti priva di rilievo sul piano giuridico, nel cui ambito il peggioramento delle condizioni del paziente può solo ricondursi ad un fatto o prevedibile ed evitabile, e dunque ascrivibile a colpa del medico, ovvero non prevedibile o non evitabile, sì da integrare gli estremi della causa non imputabile (Cass. III, n. 13328/2015). Il risultato «anomalo» o anormale, in ragione dello scostamento da una legge di regolarità causale fondata sull'esperienza, dell'intervento medico-chirurgico fonte di responsabilità, è ravvisabile non solo in presenza di aggravamento dello stato morboso o in caso di insorgenza di una nuova patologia ma anche quando l'esito non abbia prodotto il miglioramento costituente oggetto della prestazione cui il medico-specialista è tenuto, producendo, invece, conseguenze di carattere fisico e/o psicologico. Cass. III., n. 8826/2007, cit., argomentando dal principio di cui innanzi, con riferimento ad intervento routinario di settorinoplastica effettuato in struttura sanitaria pubblica, ha cassato la sentenza d'appello che, pur dando atto esserne conseguito un esito di «inalterazione» – e quindi di sostanziale «insuccesso» – sotto il profilo del pieno recupero della funzionalità respiratoria, aveva ciononostante ritenuto la condotta del medico come non integrante ipotesi di responsabilità (Tale orientamento è stato di recente confermato ed ulteriormente sviluppato da Cass. III, n. 12597/2017, per la quale si veda il precedente paragrafo relativo alla natura del rapporto tra medico e paziente, anche in merito al danno evento ed ai danni conseguenza). In conclusione merita però sottolineare, circa la ricorrenza del nesso di causalità materiale che, per Cass. III, n. 20904/2013, trattandosi di responsabilità contrattuale ed in considerazione quindi della circostanza per la quale essa è finalizzata a far valere un inadempimento oggettivo, la relativa prova, gravante in capo al paziente che assuma di essere danneggiato, quando l'impegno curativo sia stato assunto senza particolari limitazioni circa la sua funzionalizzazione a risolvere il problema che egli presentava, si sostanzia nella dimostrazione che l'esecuzione della prestazione si sia inserita nella serie causale che ha condotto all'evento di danno, rappresentato dalla persistenza della patologia per cui era stata richiesta la prestazione, dal suo aggravamento o da esiti finali costituiti dall'insorgenza di una nuova patologia ovvero dal decesso del paziente. In merito all'accertamento della colpevolezza, invece, il paziente, in quanto creditore, dovrà meramente allegare l'inadempimento qualificato del debitore, non essendo tenuto a fornire la prova della colpa del sanitario e, tanto meno, la gravità di essa. Il difetto di colpa o la non qualificabilità della stessa in termini di gravità, nel caso di cui all'art. 2236 c.c., essere allegate e provate dal medico, al pari della prova che la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, nel caso in cui il medico invochi la limitazione di responsabilità di cui all'articolo da ultimo citato, non incidendo esso sui criteri di riparto dell'onere probatorio (Cass. III, n. 24791/2008, cit.). Il sanitario, quindi, per evitare la condanna in sede risarcitoria, deve provare che l'insuccesso dell'intervento sia dipeso da fattori indipendenti dalla propria volontà e tale prova va fornita dimostrando di aver osservato nell'esecuzione della prestazione sanitaria la diligenza normalmente esigibile da un medico in possesso del medesimo grado di specializzazione, ex art. 1176 comma 2, c.c. (Cass. III, n. 24791/2008, cit.). Il paziente che alleghi di aver patito un danno alla salute in conseguenza dell'attività professionale del medico, ovvero di non avere conseguito alcun miglioramento delle proprie condizioni di salute nonostante l'intervento del medico, deve provare unicamente l'esistenza del rapporto col sanitario e l'insuccesso dell'intervento. Ciò anche quando l'intervento sia stato di speciale difficoltà, in quanto l'esonero di responsabilità di cui all'art. 2236 c.c. non incide sui criteri di riparto dell'onere della prova. Costituisce, invece, onere del medico, per evitare la condanna in sede risarcitoria, provare che l'insuccesso dell'intervento è dipeso da fattori indipendenti dalla propria volontà e tale prova va fornita dimostrando di aver osservato nell'esecuzione della prestazione sanitaria la diligenza normalmente esigibile da un medico in possesso del medesimo grado di specializzazione. In definitiva, quini, il descritto criterio di riparto non muta quindi in ragione dell'eventuale operare della limitazione di responsabilità di cui all'art. 2236 c.c., gravando sul professionista debitore la prova della sussistenza dei presupposti per l'operabilità della norma di cui innanzi (ex plurimis: Cass. III, n. 24791/2008; Cass. III, n. 583/2005). Né a tale conclusione osta l'art. 2236 c.c., il quale non esonera affatto il professionista-debitore da responsabilità nel caso di insuccesso di prestazioni complesse, ma si limita a dettare un mero criterio per la valutazione della sua diligenza (ex plurimis, con particolare riferimento alla responsabilità professionale del notaio, Cass. III, n. 16990/2015; Cass. III, n. 16254/2012, con riferimento, in generale, alle prestazioni d'opera professionale e, in particolare, nella materia dell'appalto). Nonostante rimanga immutato il riparto dell'onere probatorio comunque, acclarata la colpa del professionista, il rilievo che la prestazione eseguita comporta la risoluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà può essere compiuto d'ufficio dal giudice sulla base di risultanze istruttorie ritualmente acquisite, non formando oggetto di un'eccezione in senso stretto (Cass. III, n. 25746/2015). La domanda di risarcimento del danno, basata sulla colpa grave, peraltro, contiene quella per colpa lieve, senza che, pertanto, la pronuncia di condanna fondata su colpa lieve del professionista possa dar luogo a vizio di ultrapetizione (Cass. II, n. 8546/2005). La Suprema Corte, in un caso di c.d. «danno da nascita indesiderata», ha in particolare ritenuto che il giudice di merito non avesse fatto corretta applicazione del principio di cui innanzi circa l'onere probatorio inerente la colpa. Era stata difatti rigettata la domanda di risarcimento danni nei confronti del medico ecografista, per la nascita di un bambino malformato, senza accertare se nel corso dell'ecografia gli arti erano stati diligentemente ricercati per verificarne eventuali malformazioni e senza considerare che l'incertezza del risultato di un'indagine non comporta che la stessa sia necessariamente da qualificare come particolarmente difficile, con la conseguenza che il fatto che l'ecografia non consenta di vedere sempre (e bene) gli arti non esclude la necessità di cercarli, o di consigliare la ripetizione dell'indagine, né qualifica quest'ultima come particolarmente difficile. Nella specie, ed in applicazione del principio della vicinanza della prova, è stato altresì precisato che la prova dell'incolpevolezza dell'inadempimento (ossia della impossibilità della prestazione per causa non imputabile al debitore) e della diligenza nell'adempimento è sempre riferibile alla sfera d'azione del debitore, in misura tanto più marcata quanto più l'esecuzione della prestazione consista nell'applicazione di regole tecniche, sconosciute al creditore in quanto estranee al bagaglio della comune esperienza e specificamente proprie di quello del debitore (nel caso concreto specialista di una professione protetta (Cass. III, n. 11488/2004, in senso conforme si veda anche Cass. III, n. 10297/2004 circa la prova della colpa e della sua gravità, anche ai fini dell'applicazione della limitazione di responsabilità di cui all'art. 2236 c.c., si veda altresì Cass. III, n. 12362/2006). Pur gravando sull'attore l'onere di allegare i profili concreti di colpa medica posti a fondamento della proposta azione risarcitoria, tale onere non si spinge fino alla necessità di enucleazione e indicazione di specifici e peculiari aspetti tecnici di responsabilità professionale, conosciuti e conoscibili soltanto agli esperti del settore. È quindi sufficiente, precisa la Suprema Corte, la contestazione dell'aspetto colposo dell'attività medica secondo quelle che si ritengono essere, in un dato momento storico, le cognizioni ordinarie di un non — professionista che, espletando la professione di avvocato, conosca comunque (o debba conoscere) l'attuale stato dei profili di responsabilità del sanitario, sotto i profili della negligenza, imprudenza ed imperizia. Tra i detti profili di responsabilità si annoverano anche: l'omessa informazione sulle possibili conseguenze dell'intervento; l'adozione di tecniche non sperimentate in sede di protocolli ufficiali e la mancata conoscenza dell'evoluzione della metodica interventistica (Cass. III, n. 9471/2004, cit.). Rileva infine evidenziare che, nell'ambito della responsabilità medica, non sussistono prove legali, potendo essere raggiunta la prova del nesso eziologico anche per presunzioni, cioè all'esito di un processo critico-inferenziale. Sicché, le cause del decesso a seguito di trattamento sanitario non debbono essere provate necessariamente a mezzo di esame autoptico ben potendo essere accertate con ricorso alla «prova indiziaria» (Cass. III, n. 22876/2015). In tema di accertamento e prova della condotta colposa e nel nesso causale più in generale nelle obbligazioni risarcitorie e, in particolare, nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica sono stati sintetizzati di recente da Cass. III, n. 9342/2019. In particolare, sia nei giudizi di risarcimento del danno derivante da inadempimento contrattuale, sia in quelli di risarcimento del danno da fatto illecito, la condotta colposa del responsabile ed il nesso di causa tra questa ed il danno costituiscono l'oggetto di due accertamenti distinti; la sussistenza della prima non dimostra, di per sé, anche la sussistenza del secondo, e viceversa. L'art. 1218 c.c. solleva il creditore dall'obbligazione che si afferma non adempiuta dall'onere di provare la colpa del debitore inadempiente, ma non dell'onere di provare il nesso causale tra la condotta del debitore ed il danno del quale domanda il risarcimento. Nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica è onere dell'attore, paziente danneggiato, dimostrare l'esistenza del nesso causale tra la condotta del medico ed il danno del quale chiede il risarcimento. Detto onere va assolto dimostrando, con qualsiasi mezzo di prova, che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, la causa del danno; se al termine dell'istruttoria non risulta provato il nesso tra condotta ed evento, per essere la causa del danno lamentato dal paziente rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata (in tal senso non solo la citata Cass. III, n. 9342/2019 ma anche, sempre di recente: Cass. III, n. 26700/2018; Cass. III, n. 20812/2018; Cass. III, n. 3704/2018; Cass. III, n. 29315/2017;Cass. III, 26825/2017; Cass. III, n. 26824/2017; Cass. III, n. 18392/2017). Cass. III, n. 28991/2019 , è intervenuta in materia chiarendo ulteriormente i principi governanti il riparto dell'onere probatorio argomentando dall'interesse leso. In tema di inadempimento di obbligazioni di diligenza professionale sanitaria, in particolare, il danno evento consta della lesione non dell'interesse strumentale alla cui soddisfazione è preposta l'obbligazione (perseguimento delle leges artis nella cura dell'interesse del creditore) ma del diritto alla salute (interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato). Sicché, ha concluso la citata Suprema Corte, ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l'inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l'aggravamento della situazione patologica (o l'insorgenza di nuove patologie) e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, la causa imprevedibile ed inevitabile dell'impossibilità dell'esatta esecuzione della prestazione. Negli stessi termini anche la successiva Cass. VI-III, n. 26907/2020 che, proprio in applicazione del principio, ha cassato con rinvio la sentenza di appello la quale, pur dando atto che la documentazione esaminata non consentiva di dimostrare direttamente che l'intervento eseguito presso la casa di cura fosse diretto a rimuovere la vite metallica restata per errore nell'arto del paziente, non aveva valutato la rilevanza della stessa documentazione ai fini della prova presuntiva. Sicché, per Cass. sez. III, n. 5632/2023, nell'ipotesi di concorrenza nella produzione dell'evento lesivo tra la condotta del sanitario ed un autonomo fatto naturale, quale una pregressa situazione patologica del danneggiato, spetta al creditore della prestazione professionale l'onere di provare il nesso causale tra intervento del sanitario e danno evento in termini di aggravamento della situazione patologica e, una volta accertata la portata concausale dell'errore medico, spetta al sanitario dimostrare la natura assorbente e non meramente concorrente della causa esterna; qualora resti comunque incerta la misura dell'apporto concausale naturale, la responsabilità di tutte le conseguenze individuate in base alla causalità giuridica va interamente imputata all'autore della condotta umana. Nel senso di cui innanzi, con riferimento al nesso di causalità, sembra essersi posta anche la precedente Cass. III, n. 21008/2018. Per essa, difatti, la prova dell'inadempimento del medico non è sufficiente ad affermarne la responsabilità per la morte del paziente, occorrendo altresì il raggiungimento della prova del nesso causale tra l'evento e la condotta inadempiente, secondo la regola della riferibilità causale dell'evento stesso all'ipotetico responsabile, la quale presuppone una valutazione nei termini del c.d. "più probabile che non". Nella specie la Suprema Corte ha confermato la sentenza impugnata, che aveva escluso la responsabilità del medico per la morte di un paziente causata da un aneurisma, pur in presenza del comportamento inadempiente del sanitario consistito nell'omesso espletamento di visita domiciliare, in quanto non era possibile affermare che, in caso di visita tempestiva, il paziente avrebbe avuto ragionevoli probabilità di guarigione, tenuto conto della difficoltà di identificare l'aneurisma e di intervenire sul medesimo chirurgicamente, e, dunque, dell'assenza di fattori che probabilisticamente riconducessero alla detta omissione l'evento morte, il quale, statisticamente, si sarebbe comunque verificato nel 58% dei casi. In dottrina si prospetta l'applicazione, anche con riferimento alla responsabilità professionale medica, del principio della «vicinanza della prova», in forza del quale la dimostrazione di determinati fatti deve essere fornita da chi è più vicino ad essi e, quindi, alla loro prova, che permea di sé la responsabilità contrattuale. Trattasi di principio già fatto proprio dalla giurisprudenza di legittimità anche con riferimento alla responsabilità professionale medica, sul presupposto che essa abbia natura contrattuale (da contratto e da contatto sociale), laddove, invece le regole di riparto muterebbero sensibilmente nel caso di responsabilità extracontrattuale. Sicché, graverebbe in capo al cliente, in quanto creditore della prestazione professionale, l'onere di provare non solo il titolo ma anche il non raggiungimento del risultato ovvero la mancata tenuta della condotta (oltre che il danno ed il nesso eziologico). Graverebbe sul professionista, in quanto debitore della prestazione professionale, dimostrare invece l'esatto adempimento mediante la dimostrazione della diligenza e della perizia impiegate e della causa non imputabile (Fortino, 65, anche con riferimento alla responsabilità del professionista legale). La dottrina pone in evidenza la necessità, sempre più sentita soprattutto dai giudici di merito ma anche dalla Suprema Corte, di adattare alle singole concrete fattispecie oggetto del contendere i principi della «presunzione di persistenza del diritto insoddisfatto e della «riferibilità o vicinanza o disponibilità della prova», elaborati, in generale, in tema di inadempimento delle obbligazioni, ed in particolare con riferimento alla responsabilità per autolesione dell'alunno, in merito alla tutela reale per il lavoratore ingiustamente licenziato oltre che nella materia della responsabilità professionale. Muovendo dall'articolo 1312 c.c. previgente ed analizzando l'attuale art. 2967 c.c. (quale disposizione in bianco), in relazione all'art. 24 Cost., si concorda con la circostanza per la quale il riparto dell'onere probatorio tra creditore-attore e debitore-convenuto debba ritenersi non «cristallizzato» sulla rigida posizione che gli stessi occupano nel rapporto giuridico obbligatorio ma, al contrario, debba ancorarsi alla concreta vicenda oggetto del contendere. Solo così argomentando il principio della riferibilità della prova può essere ricondotto, come insegna la giurisprudenza costituzionale e di legittimità, all'articolo 24 Cost. che connette al diritto di azione in giudizio il divieto di interpretare la legge in modo da renderne impossibile o troppo difficile l'esercizio (Antezza, 2006, 6, 29). Rimane però il problema, evidenziato dalla detta dottrina, dell'«ancoraggio» della decisione del giudice, in merito all'individuazione del soggetto «più vicino alla prova», a parametri non fissi ma comunque tali da non mettere in crisi un altro importante principio giuridico, quello della certezza del diritto. Esso, difatti, si pone a base del giudizio circa la ipotetica accoglibilità della domanda giudiziale che ogni soggetto deve (rectius: dovrebbe) effettuare prima di agire o resistere in giudizio. Per tale tesi, quindi, ci si deve chiedere se in ogni caso di obbligazioni di mezzi, coincidendo l'inadempimento con il difetto di diligenza e/o di perizia, la prova sia sempre «vicina» a chi debba eseguire la prestazione. Ci si deve quindi domandare se, perlomeno in alcuni casi, vi sia spazio per opinare diversamente sempre muovendo dalle circostanze concrete, ricordando che l'articolo 24 Cost., oltre a sancire il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, invocato a giustificazione dell'applicazione dei citati principi in tema di riparto dell'onere probatorio, dispone che la difesa, anche del debitore professionista-convenuto, è diritto inviolabile. Tale diritto potrebbe rischiare quindi di divenire di «impossibile o troppo difficile esercizio» qualora si «cristallizzasse» l'onere della prova dell'adempimento in capo al professionista a prescindere da una attenta considerazione del caso concreto (Antezza, 2006, 6, 29; per il riparto dell'onere probatorio nelle prestazioni d'opera professionale, in particolare in merito alla responsabilità medica per «danno da nascita oltre la volontà del genitore» per mancata diagnosi di malattia del feto, si veda anche Antezza, 2006, 7-8, 15). «Vicinanza della prova» ed omessa od erronea tenuta della cartella clinicaIl criterio della maggiore possibilità per il debitore di fornire la prova dell'adempimento, in quanto rientrante nella sua sfera di dominio, che si pone alla base del principio di «vicinanza alla prova» o di «riferibilità», cioè della effettiva possibilità per l'una o per l'altra parte di offrirla, ex artt. 1218 e 2697 c.c., trova applicazione anche nel caso di omessa od erronea tenuta della cartella clinica. Le dette situazioni non possono difatti pregiudicare sul piano probatorio il paziente (che agisca per il risarcimento danni), al quale, per converso, proprio in ossequio al principio di «vicinanza» di cui innanzi, è dato ricorrere a presunzioni, anche per la prova del nesso causale, se sia impossibile la prova diretta a causa del comportamento della parte contro la quale doveva dimostrarsi il fatto invocato. In applicazione del principio, la Suprema Corte, ha cassato la decisione del giudice di merito che aveva escluso la responsabilità dei sanitari nonostante non risultassero per sei ore annotazioni sulla cartella clinica di una neonata, nata poi con grave insufficienza mentale causata da asfissia perinatale, così da rendere incomprensibile se poteva essere più appropriata la rilevazione del tracciato cardiotocografico rispetto alla mera auscultazione del battito cardiaco del feto (Cass. III, n. 6209/2016). Nello stesso senso, sempre con particolare riferimento alla difettosa tenuta della cartella clinica, si esprime la Suprema Corte che muove dalla circostanza per la quale il nesso causale sussiste anche quando, attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si possa ritenere che l'opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto fondate possibilità di evitare il danno (Cass. III, n. 10060/2010). Si precisa però che l'eventuale incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l'esistenza di un valido legame causale tra l'operato del medico e il danno patito dal paziente soltanto quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l'accertamento del relativo nesso di causalità e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare la lesione (Cass. III, n. 12218/2015). In materia, l’attuale approdo della Suprema Corte è nel senso che l’incompletezza della cartella clinica può essere circostanza di fatto utilizzabile dal Giudice soltanto quando tale incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno. In tal senso si è espressa la recente Cass. III, n. 16737/2024, cassando, in applicazione del principio, la decisione con cui la Corte territoriale aveva ritenuto irrilevante, ai fini dell’accertamento del nesso eziologico, la denunciata incompletezza della cartella clinica in punto di avvenuto svolgimento di un tracciato ecografico, dalla stessa non risultante (si vedano altresì, ex plurimis: Cass. III, n. 16891/2019; Cass. III, n. 12218/2015; Cass. III, n. 27561/2017, la quale, nella specie, ha confermato la sentenza impugnata che aveva negato rilevanza causale all’incompletezza della cartella clinica in quanto la documentazione agli atti, anche prodotta dall’attore, era sufficiente ad escludere la responsabilità del medico). Incertezza del nesso causale e causa rimasta ignotaLa configurazione della responsabilità medica in termini contrattuali e le conseguenze in tema di riparto dell'onere probatorio innanzi evidenziate implicano che il debitore (medico) rimanga soccombente rispetto all'esperita azione risarcitoria nel caso in cui non riesca a fornire la prova liberatoria di cui innanzi, proprio in applicazione della regola generale e di cui agli artt. 1218 e 2697 c.c. e, quindi, del principio di «vicinanza» alla prova o di «riferibilità», fondante sul criterio della maggiore possibilità per il debitore di fornire la prova, in quanto rientrante nella sua sfera di dominio. Quanto detto accade in misura tanto più marcata quanto più l'esecuzione della prestazione consista nell'applicazione di regole tecniche sconosciute al creditore, essendo estranee alla comune esperienza, e viceversa proprie del bagaglio del debitore, come accade nel caso di esercizio di attività specializzata nell'esecuzione di una professione protetta (ex plurimis, tra le più recenti: Cass. III, n. 7768/2016, cit.; Cass. III, n. 8989/2015, cit.; Cass. III, n. 22222/2014, cit.). I medesimi principi e, di conseguenza, il descritto riparto dell'onere probatorio trovano altresì applicazione, oltre che con riferimento all'accertamento della colpa (rimanendo a carico del sanitario anche il mero dubbio circa l'esattezza dell'adempimento), anche ed a fortiori nel caso in cui all'esito del giudizio permanga incertezza sull'esistenza del nesso causale fra condotta del medico e danno (c.d. «stallo in tema di accertamento causale») oltre che nell'ipotesi nella quale la causa rimanga ignota, che, quindi, rimangono a carico del debitore – medico o struttura sanitaria – (per l'esclusione della prova liberatoria anche nel caso di mero dubbio circa l'esattezza dell'adempimento, si veda, per tutte, tra le più recenti, Cass. III, n. 6209/2016). Le conseguenze dannose non possono difatti ridondare a scapito del paziente-creditore ma devono gravare sul presunto responsabile che non sia riuscito a fornire la prova liberatoria, ex artt. 1218 e 2697 c.c.. Dovendosi in tali termini intendere il significato della detta presunzione che affonda le proprie radici nel più generale principio, che informa l'ordinamento giuridico, di favor per il creditore/danneggiato, il cui diritto è violato dall'altrui inadempimento. In applicazione del principio, con particolare riferimento all'ipotesi di incertezza sul nesso causale, Cass. III, n. 20547/2014 ha cassato la sentenza di merito che, escludendo il nesso di causalità, aveva rigettato la domanda risarcitoria avanzata dai familiari di una paziente deceduta, in quanto la consulenza tecnica d'ufficio aveva assegnato un identico grado di possibilità alle due cause di morte tecnicamente ipotizzabili, una sola delle quali ascrivibile alla condotta del sanitario, con conseguente «stallo in tema di accertamento del nesso causale» (in senso conforme, sembrerebbe essersi espressa, in precedenza, Cass. III, n. 27855/2013, nello stesso senso, sembrerebbero propendere, tra le più recenti, Cass. III, n. 7768/2016, cit.; e Cass. III, n. 22222/2014, cit.). Nonostante il già descritto intervento nomofilattico in tema di riparto dell'onere probatorio in materia di responsabilità medica, attuato delle Sezioni Unite nel 2008 (Cass. S.U., n. 577/2008, cit.), ed il precedente intervento del 2001, con riferimento generale all'inadempimento nelle obbligazioni contrattuali ed al modo di atteggiarsi del principio della «vicinanza della prova» (Cass. S.U., n. 13533/2001, cit.), persiste oggi un contrasto in seno alla giurisprudenza di legittimità proprio in merito alla «causa rimasta ignota». In particolare, la citata Cass. III, n. 20547/2014 si pone in consapevole contrasto con Cass. III, n. 4792/2013. Quest'ultima, difatti, argomentando dall'applicazione dello stesso criterio di riparto dell'onere probatorio nella materia dell'inadempimento contrattuale, in particolare con riferimento alla responsabilità medica, ne fa conseguire che se, all'esito del giudizio, permanga incertezza sull'esistenza del nesso causale tra condotta del medico e danno, tale incertezza ricade sul paziente e non sul medico. Nel giudizio avente ad oggetto il risarcimento del danno da attività medico-chirurgica, precisa la sentenza da ultimo citata, l'attore deve provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) ed allegare l'insorgenza (o l'aggravamento) della patologia e l'inadempimento qualificato del debitore, astrattamente idoneo a provocare (quale causa o concausa efficiente) il danno lamentato. Rimane invece a carico del medico convenuto dimostrare che tale inadempimento non vi è stato, ovvero che, pur esistendo, esso non è stato causa del danno. Ne conseguirebbe, quindi, che se, all'esito del giudizio, permanga incertezza sull'esistenza del nesso causale tra condotta del medico e danno tale incertezza ricade sul paziente e non sul medico (Cass. III, n. 4792/2013, cit.). Di recente la Sezione III della Suprema Corte sembra aver risolto il detto contrasto; si veda in particolare Cass. III, n. 9342/2019 che In tema di accertamento e prova della condotta colposa e nel nesso causale più in generale nelle obbligazioni risarcitorie e, in particolare, nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica ha dichiaratamente inteso sintetizzare i seguenti principi. In particolare, sia nei giudizi di risarcimento del danno derivante da inadempimento contrattuale, sia in quelli di risarcimento del danno da fatto illecito, la condotta colposa del responsabile ed il nesso di causa tra questa ed il danno costituiscono l’oggetto di due accertamenti distinti; la sussistenza della prima non dimostra, di per sé, anche la sussistenza del secondo, e viceversa. L’art. 1218 c.c. solleva il creditore dall’obbligazione che si afferma non adempiuta dall’onere di provare la colpa del debitore inadempiente, ma non dell’onere di provare il nesso causale tra la condotta del debitore ed il danno del quale domanda il risarcimento. Nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica è onere dell’attore, paziente danneggiato, dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico ed il danno del quale chiede il risarcimento. Detto onere va assolto dimostrando, con qualsiasi mezzo di prova, che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, la causa del danno; se al termine dell’istruttoria non risulta provato il nesso tra condotta ed evento, per essere la causa del danno lamentato dal paziente rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata (in tal senso non solo la citata Cass. III, n. 9342/2019 ma anche, sempre di recente: Cass. III, n. 26700/2018; Cass. III, n. 20812/2018; Cass. III, n. 3704/2018; Cass. III, n. 29315/2017; Cass. III, 26825/2017; Cass. III, n. 26824/2017; Cass. III, n. 18392/2017). Cass. III, n. 28991/2019, argomentando dalla tipologia e natura dell’interesse leso, è intervenuta in materia chiarendo ulteriormente i principi governanti il riparto dell’onere probatorio con riferimento anche al nesso causale, sostanzialmente ritenendo che l’incertezza probatoria su di esso ricada negativamente sul paziente (attore). In tema di inadempimento di obbligazioni di diligenza professionale sanitaria, in particolare, il danno evento consta della lesione non dell'interesse strumentale alla cui soddisfazione è preposta l'obbligazione (perseguimento delle leges artis nella cura dell'interesse del creditore) ma del diritto alla salute (interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato). Sicché, ha concluso la citata Suprema Corte, ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l'inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l'aggravamento della situazione patologica (o l'insorgenza di nuove patologie) e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, la causa imprevedibile ed inevitabile dell'impossibilità dell'esatta esecuzione della prestazione. Nel senso di cui innanzi sembra essersi posta anche la precedente Cass. III, n. 21008/2018. Per essa, difatti, la prova dell'inadempimento del medico non è sufficiente ad affermarne la responsabilità per la morte del paziente, occorrendo altresì il raggiungimento della prova del nesso causale tra l'evento e la condotta inadempiente, secondo la regola della riferibilità causale dell'evento stesso all'ipotetico responsabile, la quale presuppone una valutazione nei termini del c.d. "più probabile che non". Nella specie la Suprema Corte ha confermato la sentenza impugnata, che aveva escluso la responsabilità del medico per la morte di un paziente causata da un aneurisma, pur in presenza del comportamento inadempiente del sanitario consistito nell'omesso espletamento di visita domiciliare, in quanto non era possibile affermare che, in caso di visita tempestiva, il paziente avrebbe avuto ragionevoli probabilità di guarigione, tenuto conto della difficoltà di identificare l'aneurisma e di intervenire sul medesimo chirurgicamente, e, dunque, dell'assenza di fattori che probabilisticamente riconducessero alla detta omissione l'evento morte, il quale, statisticamente, si sarebbe comunque verificato nel 58% dei casi. Concorso tra fattori naturali e fattori umaniIl principio causalistico di cui innanzi rileva anche in caso di accertamento di un pregresso stato morboso del paziente danneggiato. Nel caso tale stato, privo di interdipendenza funzionale con l'accertata condotta colposa del sanitario, sia dotato di efficacia concausale nella determinazione dell'unica e complessiva situazione patologica riscontrata, allo stesso non può attribuirsi rilievo sul piano della ricostruzione del nesso di causalità tra condotta ed evento dannoso, appartenendo ad una serie causale del tutto autonoma rispetto a quella in cui si inserisce il contegno del sanitario, bensì unicamente sul piano della determinazione equitativa del danno. Potendosi così pervenire solamente ad una delimitazione del quantum del risarcimento, sulla base di una valutazione da effettuarsi, in difetto di qualsiasi automatismo riduttivo, con ragionevole e prudente apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto. In tal senso, con particolare riferimento al pregresso stato morboso consistente in una peculiare condizione genetica quale la «sindrome di Down», si esprime Cass. III, n. 3893/2016 (negli stessi termini si vedano, in settori differenti da quello in esame, ex plurimis, Cass. II, n. 7577/2007, e Cass. IV, n. 5539/2003). Le conclusioni di cui innanzi muovono dalle seguenti argomentazioni. In materia di rapporto di causalità nella responsabilità civile, in base ai principi di cui agli artt. 40 e 41 c.p., qualora le condizioni ambientali od i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile dell'uomo siano sufficienti a determinare l'evento di danno indipendentemente dal comportamento medesimo, l'autore dell'azione o della omissione resta sollevato, per intero, da ogni responsabilità dell'evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza causale. Qualora, invece, precisa sempre la Suprema Corte, quelle condizioni non possano dar luogo, senza l'apporto umano, all'evento di danno, l'autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità (criterio della «normalità causale»). In tal caso non può difatti operarsi una riduzione proporzionale dell'incidenza causale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli (ex art. 1227 c.c.) ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile. Ne consegue che, a fronte di una sia pur minima incertezza sulla rilevanza di un eventuale contributo «con-causale» di un fattore naturale (quale che esso sia), non è ammesso, sul piano giuridico, affidarsi ad un ragionamento probatorio «semplificato», tale da condurre ipso facto ad un frazionamento delle responsabilità in via equitativa, con relativo ridimensionamento del quantum risarcitorio. Le pregresse condizioni del paziente, più in generale il concorso di cause naturali nella produzione del danno verrebbero quindi in rilievo solo nel momento della liquidazione del danno ed in particolare al fine di selezionare, tra tutte le conseguenze causate dall'errore medico, le sole che siano giuridicamente conseguenze immediate e dirette dell'illecito ex art. 1223 c.c. (Cass. III, n. 15991/2011, cit.). Ne consegue altresì che, in base ai principi di cui agli artt. 40 e 41 c.p., qualora le condizioni ambientali od i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica sulla quale incide il comportamento imputabile dell'uomo siano sufficienti a determinare l'evento di danno indipendentemente dal comportamento medesimo, l'autore dell'azione o della omissione resta sollevato, per intero, da ogni responsabilità dell'evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza causale; ove, invece, quelle condizioni non possano dare luogo, senza l'apporto umano, all'evento di danno, l'autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità, non potendo, in tal caso, operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, poiché una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile. Ne consegue che, a fronte di una sia pur minima incertezza sulla rilevanza di un eventuale contributo "con-causale" di un fattore naturale (quale che esso sia), non è ammesso, sul piano giuridico, affidarsi ad un ragionamento probatorio "semplificato", tale da condurre ipso facto ad un frazionamento delle responsabilità in via equitativa, con relativo ridimensionamento del quantum risarcitorio (Cass. III, n. 30521/2019, in termini generali circa il nesso causale in ipotesi di condizioni ambientali o fattori naturali caratterizzanti la realtà fisica, oltre che, in senso conforme, la precedente Cass. III, n. 15991/2011, cit.). Sostanzialmente muovendo dai medesimi principi, per Cass. III, n. 10812/2019, ove si individui in un pregresso stato morboso del paziente/danneggiato (nella specie, deficit da surfactante o sindrome da di stress o delle membrane ialine) un antecedente privo di interdipendenza funzionale con l'accertata condotta colposa del sanitario (nella specie, intempestivo intervento di taglio cesareo di fronte a sofferenza fetale acuta), ma dotato di efficacia concausale nella determinazione dell'unica e complessiva situazione patologica riscontrata, allo stesso non può attribuirsi rilievo sul piano della ricostruzione del nesso di causalità tra detta condotta e l'evento dannoso, appartenendo ad una serie causale del tutto autonoma rispetto a quella in cui si inserisce il contegno del sanitario, bensì unicamente sul piano della determinazione equitativa del danno, potendosi così pervenire - sulla base di una valutazione da effettuarsi, in difetto di qualsiasi automatismo riduttivo, con ragionevole e prudente apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto - solamente ad una delimitazione del "quantum" del risarcimento. In senso conforme anche la precedente Cass. III, n. 20829/2018, con riferimento a pregresso stato morboso del paziente/danneggiato individuato nella leucomalacia periventricolare – danno alla sostanza bianca presente nel cervello – quale un antecedente privo di interdipendenza funzionale con l'accertata condotta colposa del sanitario, nella specie, intempestivo intervento di taglio cesareo di fronte a sofferenza fetale acuta). Negli stessi termini della rilevanza (sotto il profilo causale) della concausa umana solo se colposa, ancorché in ipotesi di responsabilità extracontrattuale, si esprime anche Cass. III, n. 4208/2017. Per essa il risarcimento dei danni patiti, iure proprio, dai congiunti della vittima deve essere ridotto in misura corrispondente alla percentuale di contributo causale all'evento dannoso ascrivibile al comportamento colposo del deceduto, non potendosi al danneggiante farsi carico di quella parte di danno che non è a lui causalmente imputabile secondo il paradigma della causalità del diritto civile. Differentemente da quello penale, l'ordinamento civile conferisce rilevanza alla concausa umana colposa, ai sensi dell'art. 1227 c.c., che, peraltro, trova applicazione anche in ambito extracontrattuale in forza dell'art. 2056 c.c.. Il giudice, chiarisce l'orientamento di cui innanzi, deve quindi accertare, sul piano della causalità materiale (rettamente intesa come relazione tra la condotta e l'evento di danno, alla stregua di quanto disposto dall'art. 1227 comma 1 c.c.), l'efficienza eziologica della condotta rispetto all'evento in applicazione della regola di cui all'art. 41 c.p. A mente della quale il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l'azione e l'omissione e l'evento, così da ascrivere l'evento di danno interamente all'autore della condotta illecita. All'esito occorre procedere, eventualmente anche con criteri equitativi, alla valutazione della diversa efficienza delle varie concause sul piano della causalità giuridica, rettamente intesa come relazione tra l'evento di danno e le singole conseguenze dannose risarcibili all'esito prodottesi. In tal modo si ascrive all'autore della condotta, responsabile «tout court» sul piano della causalità materiale, un obbligo risarcitorio che non comprenda anche le conseguenze dannose non riconducibili eziologicamente all'evento di danno, bensì determinate dal fortuito, come tale da reputarsi la pregressa situazione patologica del danneggiato che, a sua volta, non sia causalmente riconducibile a negligenza, imprudenza od imperizia del sanitario. L'orientamento di cui innanzi prende le distanze da un contrario precedente (isolato) della Suprema Corte del 2009, che, nella sostanza, circoscriverebbe ulteriormente l'area della responsabilità medica ma non apprezzando a pieno, secondo la detta impostazione di legittimità del 2011, i due diversi nessi di causalità operanti nella responsabilità civile: la causalità materiale tra condotta e lesione (art. 40 c.p.) e la causalità giuridica tra lesione e danni che ne sono derivati (art. 1223 c.c.). Per esso, qualora la produzione di un evento dannoso, nella specie la morte di un paziente, sia riconducibile, sotto il profilo eziologico, alla concomitanza della condotta del sanitario e del fattore naturale rappresentato dalla situazione patologica del paziente (la quale non sia legata all'anzidetta condotta da un nesso di dipendenza causale), il giudice deve procedere, eventualmente anche con criteri equitativi, alla valutazione della diversa efficienza delle varie concause, onde attribuire all'autore della condotta dannosa la parte di responsabilità correlativa. Al fine di lasciare a carico del danneggiato il peso del danno alla cui produzione ha concorso a determinare il suo stato personale (Cass. III, n. 975/2009). L'orientamento in esame (del 2009) muove dalla considerazione per la quale ricorrono ragioni logico-giuridiche le quali consentono di procedere a una valutazione della diversa efficienza delle varie concause e di escludere che l'autore della condotta umana debba necessariamente sopportare nella loro integralità le conseguenze dell'evento dannoso. Non potrebbe ostare a questa conclusione la norma dell'art. 2055 comma 1 c.c., per la quale «se il fatto dannoso è imputabile a più persone tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno». Questa regola è, in realtà, la ripetizione, nel settore della responsabilità aquiliana del principio di solidarietà, avente portata generale nel nostro ordinamento positivo, ex art. 1294 c.c. Anche per tale settore è stata difatti tradotta in regola positiva la tendenza a favorire il danneggiato-creditore mediante il rafforzamento della tutela del suo diritto al risarcimento. Al riguardo si osserva che qualora la condotta imputabile ad un unico soggetto abbia agito in concomitanza con forze estranee, la circostanza elimina il presupposto fondamentale della citata disposizione, consistente nel concorso di più cause imputabili a soggetti diversi. Ciò comporta l'ulteriore rilievo che per tali ragioni non può entrare in funzione il correttivo che, nei rapporti interni, il diritto di regresso introduce nel principio di solidarietà. Stando alla sua formulazione letterale, l'art. 2055 comma 1 c.c. disciplina l'ipotesi in cui l'accertamento dell'esistenza del nesso di causalità sia già avvenuto e sia sfociato nella identificazione di più concause umane imputabili. Solo quando tale presupposto si sia realizzato, sorge il diritto del danneggiato di pretendere da ciascun coautore dell'illecito l'integrale risarcimento del danno. A sua volta l'art. 2055, comma 2, c.c. stabilisce che «colui che ha risarcito il danno ha regresso contro ciascuno degli altri, nella misura determinata dalle gravità della rispettiva colpa e della entità delle conseguenze che ne sono derivate». Ciò significherebbe, in primo luogo, che nei rapporti interni fra condebitori è perfettamente legittima, ed anzi doverosa, una scissione del nesso causale nelle sue diverse componenti, secondo l'efficienza dei singoli apporti, e che il frazionamento della responsabilità non è estraneo al sistema positivo. Della stessa soluzione darebbero poi conferma le regole dettate dall'art. 1227 c.c., nelle quali è preciso il riferimento della possibilità della scissione – stavolta con rilevanza verso l'esterno – del nesso causale sulla base del principio che la responsabilità va proporzionata alle conseguenze che si riconnettono ad una determinata causa imputabile. Sotto la medesima ratio, conclude quindi la Suprema Corte, si potrebbe ricondurre il caso in cui l'evento letale sia la conseguenza del concorso della condotta del sanitario con la situazione patologica del soggetto deceduto, non essendovi ragione per usare al fattore causale meramente naturale un trattamento diverso rispetto a quello riservato al fatto dello stesso danneggiato. L'ostacolo che a questa soluzione dovrebbe opporre la norma dell'art. 1221, comma 1, c.c., che regola la perpetuatio obligationis, non può ritenersi sussistente. Ciò non tanto perché si tratta di norma non inclusa fra quelle richiamate dall'art. 2056 c.c. quanto per il duplice motivo che essa è regola peculiare della materia dell'inadempimento delle obbligazioni che suppone risolto preventivamente il problema della causalità, giacché si occupa della disciplina della impossibilità dell'adempimento allorché il debitore versi già in situazione di inadempienza. Argomentando nei termini di cui innanzi l'orientamento in esame, conclude nel senso che in caso di inadempimento colposo, ove non si possa concludere con certezza che esso sia la causa dell'evento dannoso e neppure lo si possa escludere, anziché accollare l'intero peso del danno all'uno o all'altro soggetto, è possibile lasciare a carico del danneggiato il peso del danno alla cui produzione ha concorso a determinare il suo stato e imputare all'altro il peso del danno la cui produzione può avere trovato causa nella sua condotta negligente. Qualora l'evento sia prodotto da un concorso di caso fortuito (nella specie una pregressa grave situazione patologica del paziente deceduto che, di per sé sola, in grado si spiegare l'evento letale) e causa umana (cioè errore dei sanitari) sarà compito del giudice del merito procedere alla specifica identificazione della parte di danno rapportabile all'uno o all'altra, eventualmente con criterio equitativo. La cui applicazione è legittima, ex art. 1226 c.c., ogni qualvolta si versi in presenza di uguale necessità, rispondendo l'interpretazione estensiva della citata norma, di per sé corretta, anche a ragioni di giustizia sostanziale, che impediscono di addossare tutto il risarcimento del danno al responsabile di una sola porzione di esso (Cass. III, n. 975/2009, cit.). Come detto, tale differente approdo del 2009, è rimasto isolato nella Suprema Corte che invece, dopo il revirement del 2011, continua a fare applicazione della contrapposta tesi che, a fortiori , opera anche nel caso di incertezza circa l'eventuale efficacia concausale di un fattore naturale. Essa, in particolare, non rende ammissibile, sul piano giuridico, l'operatività di un ragionamento probatorio «semplificato» che conduca ad un frazionamento della responsabilità, con conseguente ridimensionamento del «quantum» risarcitorio secondo criteri equitativi, rimanendo la detta incertezza a carico del debitore in applicazione delle regole proprie della responsabilità contrattuale. In applicazione del principio, Cass. III, n. 8995/2015 ha confermato la decisione con la quale il giudice di merito, in relazione al danno cerebrale patito da un neonato, aveva posto l'obbligo risarcitorio interamente a carico della struttura sanitaria nella quale il neonato era stato ricoverato immediatamente dopo il parto – avvenuto in altra struttura – e presso la quale aveva contratto un'infezione polmonare, e ciò sebbene le risultanze della consulenza tecnica d'ufficio non avessero escluso la possibilità che un contributo concausale al pregiudizio lamentato fosse derivato da una patologia sviluppata in occasione della nascita. Con il conforto dell'orientamento dominante innanzi evidenziato, ed in particolare della citata sentenza del 2011, potrebbe sostenersi dunque che nel caso di condotta del medico tale da aggravare lo stato di salute del paziente (già malato) il danno sarebbe liquidabile in ragione di quale sarebbe stata la condizione del paziente se non ci fosse stato l'errore medico. Nel caso di condotta tale da cagionare danni alla salute del paziente, già affetto da patologia però priva di effetti invalidanti, il danno sarebbe invece liquidabile senza tenere conto del pregresso stato morboso del paziente. Nel diverso caso di condotta del medico tale da cagionare la morte del paziente, già affetto da patologia ma non letale, il pregresso stato di salute sarebbe irrilevante ai fini della liquidazione del danno iure proprio patito familiari della vittima ma potrebbe fondare la riduzione del risarcimento dell'eventuale danno alla salute patito dal paziente e trasmesso iure successionis agli eredi. Nel caso invece che veda la condotta colposa del medico accelerare la morte del paziente, già affetto da malattia letale, le pregresse condizioni di salute potrebbero giustificare una riduzione del risarcimento del danno iure proprio patito ai familiari, in proporzione dello scarto temporale tra la durata della vita effettivamente vissuta e quella che la vittima avrebbe verosimilmente potuto sperare di trascorrere in assenza della condotta di cui innanzi. In tema di concause Cass. III, n. 28986/2019 ha chiarito che la preesistenza della malattia in capo al danneggiato costituisce una concausa naturale dell'evento di danno ed il concorso del fatto umano la rende irrilevante in virtù del precetto dell'equivalenza causale dettato dall'art. 41 c.p. sicché di essa non dovrà tenersi conto nella determinazione del grado di invalidità permanente e nella liquidazione del danno. Può costituire concausa dell'evento di danno anche la preesistente menomazione, vuoi "coesistente" vuoi "concorrente" rispetto al maggior danno causato dall'illecito, assumendo rilievo sul piano della causalità giuridica ai sensi dell'art. 1223 c.c. In particolare, ha proseguito la Suprema Corte, quella "coesistente" è, di norma, irrilevante rispetto ai postumi dell'illecito apprezzati secondo un criterio controfattuale (vale a dire stabilendo cosa sarebbe accaduto se l'illecito non si fosse verificato) sicché anche di essa non dovrà tenersi conto nella determinazione del grado di invalidità permanente e nella liquidazione del danno. Viceversa, secondo lo stesso criterio, quella "concorrente" assume rilievo in quanto gli effetti invalidanti sono meno gravi, se isolata, e più gravi, se associata ad altra menomazione (anche se afferente ad organo diverso) sicché di essa dovrà tenersi conto ai fini della sola liquidazione del risarcimento del danno e non anche della determinazione del grado percentuale di invalidità che va determinato comunque in base alla complessiva invalidità riscontrata in concreto, senza innalzamenti o riduzioni. Sostanzialmente nello stesso senso, ancorché in termini più generali, si veda altresì Cass. III, n. 30922/2017, per la quale in tema di responsabilità civile, la comparazione tra causa umana imputabile e causa naturale è esclusivamente funzionale a stabilire, in seno all'accertamento della causalità materiale, la valenza assorbente dell'una rispetto all'altra, sicché non può operarsi una riduzione proporzionale della responsabilità in ragione della minore gravità dell'apporto causale del danneggiante, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile. La citata Cass. III, n. 28986/2019 dalle argomentazioni di cui innanzi ha tratto altresì conseguenze in tema di liquidazione del danno alla salute. L'apprezzamento delle menomazioni preesistenti "concorrenti" in capo al danneggiato rispetto al maggior danno causato dall'illecito va compiuto stimando, prima, in punti percentuali l'invalidità complessiva, risultante cioè dalla menomazione preesistente sommata a quella causata dall'illecito e poi quella preesistente all'illecito, convertendo entrambe le percentuali in una somma di denaro, con la precisazione che in tutti quei casi in cui le patologie pregresse non impedivano al danneggiato di condurre una vita normale lo stato di invalidità anteriore al sinistro dovrà essere considerato pari al cento per cento; procedendo infine a sottrarre dal valore monetario dell'invalidità complessivamente accertata quello corrispondente al grado di invalidità preesistente, fermo restando l'esercizio del potere discrezionale del giudice di liquidare il danno in via equitativa secondo la cd. equità giudiziale correttiva od integrativa, ove lo impongano le circostanze del caso concreto. In applicazione dei detti criteri, il Giudice di legittimità ha confermato la decisione con la quale il giudice di appello aveva accertato che il danneggiato, a causa del sinistro stradale occorsogli, aveva patito conseguenze dannose che avevano reso più penosa la menomazione preesistente di cui era portatore e aveva correttamente precisato che ai fini del calcolo del danno la sottrazione doveva essere operata non già tra i diversi gradi di invalidità permanente, bensì tra i corrispondenti valori monetari. Parimenti, In caso di patologia ingravescente dal possibile esito letale che determini un'invalidità espressa nei gradi percentuali dei "barèmes" medico legali, l'aggravamento delle condizioni del danneggiato costituisce la mera concretizzazione del rischio, già considerato nella scala dei gradi di invalidità, di un'evoluzione peggiorativa eziologicamente riconducibile all'originaria infermità e, perciò, non integra un ulteriore danno biologico risarcibile, a meno che al tempo dell'accertamento il successivo evento dannoso, ancorché riconducibile all'originaria lesione, fosse sconosciuto alla scienza medica e, quindi, non considerato dai "barèmes". In applicazione di tale principio, la Cass. III, n. 29492/2019. ha confermato la decisione di merito che aveva escluso il risarcimento - in aggiunta al danno biologico precedentemente accertato e liquidato - del pregiudizio derivante dal peggioramento delle condizioni di salute e, poi, dal decesso di un soggetto affetto da virus HCV contratto a seguito di emotrasfusione, trattandosi di avveramento di un prevedibile rischio di aggravamento della patologia epatica originaria). Il fattore naturale quale causa esclusiva La ricorrenza di un fattore naturale può infine costituire causa esclusiva dell'evento pregiudizievole ove il danneggiante provi che lo stesso derivi da una circostanza a sé non imputabile. In applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha cassato la decisione impugnata che, in un caso di amputazione di un dito subita dalla paziente per la complicanza di un intervento chirurgico, non aveva accolto la domanda risarcitoria poiché era emerso che le lesioni erano derivate da una evoluzione fibrocicatriziale più abbondante dell'usuale. Nella specie difatti il giudice di merito non aveva valutato, in base alle risultanze istruttorie, se la reazione fibrocicatriziale o altri fattori naturali fossero stati causa esclusiva dell'evento (Cass. III, n. 12516/2016, cit.). Concorso tra fattori umani: lesioni da sinistro stradale e successiva colpa medicaQuanto evidenziato nei precedenti paragrafi, con particolare riferimento alla non interruzione del nesso eziologico in caso di concause colpose, si pone alla base del ragionamento giurisprudenziale per il quale la colposa condotta medica, successiva alle provocate lesioni (generalmente, ma non necessariamente da sinistro stradale) non è causa esclusiva dell'evento ulteriore rispetto alle dette lesioni, con conseguente solidarietà passiva degli autori delle diverse condotte ex art. 2055 c.c. A differenza di quanto previsto all'art. 2043 c.c., che fa sorgere l'obbligo del risarcimento dalla commissione di un «fatto» doloso o colposo, il successivo art. 2055 c.c. considera, ai fini della solidarietà nel risarcimento stesso, il «fatto dannoso». Mentre la prima norma si riferisce quindi all'azione del soggetto che cagiona l'evento la seconda riguarda la posizione di quello che subisce il danno ed in favore del quale è stabilita la solidarietà (dal lato passivo). L'unicità del fatto dannoso richiesta dal citato art. 2055 c.c., per la legittima predicabilità di una responsabilità solidale tra gli autori dell'illecito, deve essere intesa dunque in senso non assoluto ma relativo al danneggiato, ricorrendo quindi tale forma di responsabilità anche nelle ipotesi nelle quali il fatto dannoso derivi da più azioni o omissioni, dolose o colpose, costituenti fatti illeciti distinti, ed anche diversi, sempreché le singole azioni od omissioni abbiano concorso in maniera efficiente alla produzione del danno. In applicazione del principio, Cass. III, n. 17397/2007 ha affermato la responsabilità solidale tra l'autore dell'incidente, che aveva causato lesioni personali al danneggiato, ed i medici, che avevano provveduto alle conseguenti relative cure sanitarie violando in concreto il criterio di diligenza di cui all'art. 1176 c.c., applicabile anche all'ipotesi di responsabilità extracontrattuale, ritenendo peraltro la rispettiva prestazione professionale problemi tecnici di particolare difficoltà. La Suprema Corte precisa altresì che per l'operatività della responsabilità solidale di cui all'art. 2055 c.c., nei termini di cui innanzi, non rileva, a differenza di quanto accade nel campo penalistico, l'assenza di un collegamento psicologico tra le stesse. Deve infatti escludersi, a norma dell'art. 41 comma 2 c.p, l'imputabilità del fatto dannoso a taluno degli autori delle condotte illecite esclusivamente nel caso in cui ad uno solo degli antecedenti causali debba essere riconosciuta efficienza determinante ed assorbente, tale da escludere il legame eziologico tra l'evento dannoso e gli altri fatti, relegati al rango di mere occasioni (Cass. III, n. 6041/2010). Concorso di condotte successive di sanitari Le stesse argomentazioni di cui al paragrafo precedente sono suscettibili di essere applicate all'ipotesi di evento riconducibile a condotte indipendente di diversi medici. Delle conseguenze dannose di un intervento chirurgico, eseguito in modo imperito, possono essere difatti chiamati a rispondere non solo i sanitari che lo hanno eseguito ma anche il medico curante del paziente, il quale abbia dapprima prescritto la cura dai cui effetti necessiti l'intervento chirurgico, rilevando ciò ai fini del nesso di causalità, e poi omesso di informare i colleghi chirurghi del particolare tipo di cure praticate al paziente e delle relative peculiarità, rilevando ciò sul piano della colpa. Il principio di cui innanzi è stato applicato dalla Suprema Corte in un caso nel quale una cura contro l'infertilità somministrata dal medico di fiducia aveva provocato un ingrossamento delle ovaie della paziente, inducendo altri sanitari a rimuoverle chirurgicamente, con un intervento però reputato dal giudice di merito non necessario. Nella specie il Giudice di legittimità ha cassato la decisione impugnata, che aveva escluso la responsabilità del ginecologo in forza del successivo errore commesso dai chirurghi, ritenendo al contrario sussistere un nesso di causa tra la condotta del ginecologo ed il danno finale (Cass. III, n. 4029/2013). In materia di interruzione del nesso causale, ancorché sotto il versante penalistico, si assiste però ad un recente revirement in materia di cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l'evento, soprattutto con riferimento a diverse condotte tenute da medici, che potrebbe porsi alla base di conseguenze anche in ambito civilistico. L'orientamento tradizionale della giurisprudenza penale è nel senso che la condotta medica sopravvenuta, anche se retta da colpa grave, non ha mai carattere eccezionale e quindi non esclude mai il nesso causale tra la prima condotta colposa e l'evento. La condotta dei sanitari, quindi, non può ritenersi causa autonoma ed indipendente rispetto al comportamento dell'agente che, provocando il fatto lesivo, ha reso necessario l'intervento dei medici. La negligenza o imperizia dei medici non costituisce di per sé un fatto imprevedibile, eccezionale, atipico rispetto alla serie causale precedente di cui costituisce uno sviluppo evolutivo normale anche se non immancabile (cfr. Cass. pen. IV, n. 33329/2015., laddove costruisce la tesi tradizionale per poi rifarsi alla teoria del rischio). La Suprema Corte (in sede penale) ora ritiene difatti che la condotta medica eccentrica (a prescindere dal fatto che in taluni casi sia eccezionale), in quanto tale da creare un rischio nuovo, incommensurabile, del tutto incongruo rispetto al rischio originario attivato dalla prima condotta, sia idonea a costituire causa sopravvenuta interruttiva del nesso eziologico,exart. 41, comma 2, c.p. In applicazione del principio Cass. pen. IV, n. 33329/2015, cit., ha escluso il nesso causale tra l'errore nell'originaria diagnosi dell'entità della patologia, dovuta al mancato espletamento dei necessari accertamenti strumentali, ed il decesso del paziente, giacché l'evento letale era stato determinato da un gravissimo errore dell'anestesista, qualificato dalla Suprema Corte «rischio nuovo e drammaticamente incommensurabile», rispetto a quello innescato dalla prima condotta. A tale concetto ha fatto altresì riferimento Cass. pen. IV, n. 15493/2016 nell'escludere il nesso causale tra l'errore del pediatra, che aveva sottovalutato l'urgenza di un intervento sanitario da eseguirsi in ambiente ospedaliero, ed il decesso della paziente, giacché l'evento letale era stato determinato da un gravissimo errore dell'anestesista, ancora una volta qualificato quale «rischio nuovo e drammaticamente incommensurabile», rispetto a quello innescato dalla prima condotta. Nella specie, ad una prima condotta colposa del pediatra, consistente nel ritardo del ricovero della paziente affetta da epiglottide, ne era seguita quella dell'anestesista, il quale, durante un intervento reso necessario in sede di ricovero, aveva proceduto ad un'intubazione «alla cieca», senza broncoscopio, con conseguente inserimento della cannula in esofago e non in trachea e morte della paziente per insufficienza ventilatoria. Negli stessi termini si è espressa Cass. pen. IV, n. 3312/2016, escludendo il nesso causale tra l'omessa segnalazione (da parte dell'anestesista che aveva effettuato la visita propedeutica ad un intervento di rinoplastica) di alcuni indici di difficoltà di intubazione del paziente ed il successivo decesso dello stesso per edema indotto della laringe con conseguente arresto cardiaco causato da ipossia. Nella specie è stata in particolare attribuita portata interruttiva del nesso causale alla condotta omissiva e negligente di altro anestesista, subentrato al collega, che, dopo aver effettuato la visita anestesiologica, aveva autonomamente scelto la procedura da adottare, aveva eseguito le manovre di intubazione del paziente ed era intervenuto al momento della crisi respiratoria. Sempre in applicazione del principio di cui innanzi, è stata invece ritenuta immune da censura la decisione che aveva affermato la sussistenza del nesso causale tra l'errore chirurgico originario, che aveva ridotto la paziente in coma profondo, ed il decesso della medesima per setticemia contratta durante il lungo ricovero presso l'unità di terapia intensiva. La Suprema Corte ha in particolare rilevato come l'«infezione nosocomiale» sia uno dei rischi tipici e prevedibili da tener in conto nei casi di non breve permanenza nei raparti di terapia intensiva, ove lo sviluppo dei processi infettivi è tutt'altro che infrequente in ragione delle condizioni di grave defedazione fisica dei pazienti (Cass. pen. IV, 25689/2016). Proprio in tema di infezioni nosocomiali, Cass. sez. III, n. 6386/2023 ha chiarito che ai fini dell'accertamento del nesso di causalità tra l'infezione e la degenza ospedaliera, al CTU deve essere demandata, tra l'altro, la verifica della mancanza o insufficienza di direttive generali in materia di prevenzione e del mancato rispetto delle stesse, nonché dell'omessa informazione circa la possibile inadeguatezza della struttura per l'indisponibilità di strumenti essenziali e della eventuale effettuazione di un ricovero non sorretto da alcuna esigenza di diagnosi e cura ed associato ad un trattamento non appropriato. Fermo restando che grava sul soggetto danneggiato la prova della diretta riconducibilità causale dell'infezione alla prestazione sanitaria; una volta assolto dal paziente, anche a mezzo di presunzioni, l'onere probatorio relativo al nesso causale, incombe sulla struttura sanitaria, al fine di esimersi da ogni responsabilità per i danni patiti dal paziente, l'onere di fornire la prova della specifica causa imprevedibile e inevitabile dell'impossibilità dell'esatta esecuzione della prestazione, intesa, quest'ultima, non già, riduttivamente, quale mera astratta predisposizione di presidi sanitari potenzialmente idonei a scongiurare il rischio di infezioni nosocomiali a carico dei pazienti, bensì come impossibilità in concreto dell'esatta esecuzione della prestazione di protezione direttamente e immediatamente riferibile al singolo paziente interessato (Cass. sez. III, n. 5490/2023). In dottrina, pur commentando con favore il nuovo arresto della giurisprudenza penale di legittimità, vi è chi ritiene non corretto, perlomeno non sempre corretto, il riferimento all'interruzione del nesso causale per l'ipotesi di condotta medica eccentrica. Al riguardo si evidenzia che il rischio nuovo è un rischio diverso da quello originario, cioè da quello creato dalla precedente condotta (medica) colposa, tanto più se il rischio sopravvenuto, oltre che nuovo, lo si accerta anche incommensurabile e letale rispetto a quello originario. Sicché, essendo l'evento concretizzazione del rischio nuovo e non di quello originario ed essere esclusa sarebbe la colpa e non il nesso eziologico, venendo in rilievo non l'art. 41 comma 2 c.p. bensì l'art. 43 (Piras, 4). Il «danno da perdita di chance»La responsabilità professionale in generale è terreno elettivo per l'elaborazione del c.d. danno da perdita di chance, anche con riferimento al settore medico. La teorizzazione in esame risente anche dell'evoluzione giurisprudenziale in tema d'individuazione e prova del nesso di causalità tra inadempimento della prestazione del professionista dedotta in contratto e danno, più in generale tra condotta ed evento, che evidenzia l'approdo del criterio della «preponderanza dell'evidenza» o «del più probabile che non» (anche detto della «probabilità relativa»), ispirato alla regola della «normalità causale». In tema di illecito civile, difatti, la ricostruzione del nesso di derivazione eziologica esistente tra la condotta del danneggiante e la conseguenza dannosa risarcibile implica la scomposizione del giudizio causale in due autonomi e consecutivi segmenti. Il primo volto ad identificare – in applicazione del criterio del «più probabile che non» – il nesso di causalità materiale che lega la condotta all'evento di danno. Il secondo è invece diretto ad accertare il nesso di causalità giuridica che lega tale evento alle conseguenze dannose risarcibili, accertamento, quest'ultimo, da compiersi in applicazione dell'art. 1223 c.c., norma che pone essa stessa una regola eziologica. Come per la causalità ordinaria, anche per la causalità da «chance» perduta, quindi, l'accertamento del nesso di causalità materiale implica sempre l'applicazione della regola causale «di funzione», cioè probatoria, del «più probabile che non» (Cass. III, n. 21255/2013, la quale però fa riferimento al danno da «chance» perduta da intendersi nella specie come possibilità di un risultato diverso e migliore, e non come mancato raggiungimento di un risultato solo possibile, concludendo, in applicazione del criterio di cui innanzi, nel senso che la ricorrenza del nesso causale può affermarsi allorché il giudice accerti che quella diversa – e migliore – possibilità si sarebbe verificata «più probabilmente che non»). Come da tempo evidenziato, tanto da autorevole dottrina quanto dalla giurisprudenza di legittimità, la chance (o concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene) non è una mera aspettativa di fatto ma un'entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d'autonoma valutazione. Sicché, la sua perdita, id est la perdita della possibilità di conseguire un qualsivoglia risultato utile del quale risulti provata la sussistenza, configura una lesione all'integrità del patrimonio, in termini di danno emergente, la cui risarcibilità è, quindi, conseguenza immediata e diretta del verificarsi d'un danno concreto ed attuale (ex plurimis: in materia di responsabilità medica, Cass. III, n. 4400/2004, cit.; in materia di responsabilità professionale dell'avvocato, Cass. 11548/2013, in materia di responsabilità del ragioniere, Cass. II, n. 22026/2004, in materia di responsabilità professionale del commercialista, Cass. II, n. 15759/2001; in materia di danno da perdita di chance di promozione ad una qualifica superiore nell'ambito di rapporto di lavoro si vedano: Cass. IV, n. 734/2002; Cass. IV, n. 14074/2000; Cass. IV, n. 11340/1998; Cass. IV, n. 2167/1996; Cass. IV, n. 6506/1985). Con particolare riferimento alla responsabilità medica l'elaborazione del danno da perdita di chance, pur prendendo le mosse dalla giurisprudenza giuslavoristica italiana e dal «giudizio basato sul sacrificio delle possibilità» proprio della giurisprudenza francese, assume una sua autonomia a partire da un fondamentale arresto di legittimità del 2004. Per esso la diagnosi errata o inadeguata integra di per sé un inadempimento della prestazione sanitaria e, in presenza di fattori di rischio legati alla gravità della patologia o alle precarie condizioni di salute del paziente, aggrava la possibilità che l'evento negativo si produca, producendo in capo al paziente la perdita delle chance di conseguire un risultato utile. Tale perdita di chance configura una autonoma voce di danno emergente, che va commisurato alla perdita della possibilità di conseguire un risultato positivo e non alla mera perdita del risultato stesso, e la relativa domanda è domanda diversa rispetto a quella di risarcimento del danno da mancato raggiungimento del risultato sperato. Cass. III, n. 4400/2004, cit., in particolare chiarisce che il danno in esame, non meramente ipotetico o eventuale in quanto non correlato al raggiungimento del risultato utile, bensì concreto ed attuale, quale perdita di una consistente possibilità di conseguire quel risultato, non va commisurato alla perdita del risultato bensì alla mera possibilità di conseguirlo. Sicché, si dissocia il danno come perdita della possibilità dal danno per mancata realizzazione del risultato finale, introducendo così una distinta ed autonoma ipotesi di danno emergente, incidente su di un diverso bene giuridico, la possibilità del risultato. Nei suddetti termini la Suprema Corte critica quella tesi, che ritiene minoritaria in dottrina, per la quale con l'espressione «perdita di una probabilità favorevole» non si farebbe riferimento ad un danno distinto da quello finale ma si descriverebbe solo una sequenza causale, nella quale la certezza del collegamento fatto-evento si evince dalla sola probabilità del suo verificarsi, con conseguente adeguamento del risarcimento alla portata effettuale della condotta illecita sul danno finale. Ragioni di coerenza del sistema inducono a ritenere che la responsabilità in esame si ispiri alla regola della ripartizione del carico del danno tra creditore e debitore, di cui all'art. 1227 c.c., pur essendo la relativa domanda (del risarcimento del danno per perdita di chance) ontologicamente diversa dalla domanda di risarcimento del danno da mancato raggiungimento del risultato sperato. In quest'ultima la stessa collocazione logico-giuridica dell'accertamento probabilistico attiene alla fase di individuazione del nesso causale, mentre nell'altro caso attiene al momento della determinazione del danno. In buona sostanza, nel primo caso le chance substanziano il nesso causale, nel secondo caso sono l'oggetto della perdita e quindi del danno. La Suprema Corte, ne fa conseguire, nell'ambito della responsabilità medica, nella specie per prestazione errata o mancante, cui è conseguito il danno del mancato raggiungimento del risultato sperato, che se è stato richiesto solo questo danno, non può il giudice esaminare ed eventualmente liquidare il danno da perdita di chance, che il creditore della prestazione sanitaria aveva, neppure intendendo questa domanda come un minus rispetto a quella proposta, costituendo, invece domande diverse, non ricomprese l'una nell'altra (Cass. III, n. 4400/2004, cit.). Stesse argomentazioni portano, successivamente, la Suprema Corte a ritenere che la domanda di risarcimento del danno da perdita delle chance di guarigione di un prossimo congiunto, in conseguenza d'una negligente condotta del medico che l'ebbe in cura, deve essere formulata esplicitamente, non potendo ritenersi implicita nella richiesta generica di condanna del convenuto al risarcimento di «tutti i danni» causati dalla morte della vittima (Cass. III, n. 21245/2012). Parimenti, la domanda di determinazione, in via equitativa, del danno da perdita di chance non può essere proposta per la prima volta in cassazione, trattandosi di danno potenziale, non assimilabile ad un danno futuro e, dunque, non ricompreso, neppure per implicito, in una domanda generica di risarcimento del danno (Cass. IV, n. 13491/2014). Sullo specifico tema da ultimo trattato (eventuale ultrapetizione) si registra però un contrasto nella giurisprudenza di legittimità. Nel 2015, difatti, la Suprema Corte ha ritenuto che la domanda di risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non, derivanti da un illecito aquiliano, esprime la volontà di riferirsi ad ogni possibile voce di danno, a differenza di quella che indichi specifiche e determinate voci. Sicché, pur quando in citazione non vi sia alcun riferimento, tale domanda si estende anche al lucro cessante (nella specie, perdita di chance lavorativa), la cui richiesta non può, pertanto, considerarsi domanda nuova, come tale inammissibile (Cass. III, n. 7193/2015). A tale ultimo precedente del 2015 si è riferita esplicitamente la recente Cass. III, n. 12597/2017 , proprio in tema di responsabilità medica, confutando, sullo specifico punto, Cass. III, n. 4400/2004, cit., rifiutandosi di considerare come una domanda diversa l'invocazione del danno da perdita di chance, essendo tale perdita solo una componente dell'unico diritto al risarcimento del danno insorto dall'illecito. Sicché, basterebbe la formulazione con la quale nella domanda si chieda il risarcimento di tutti i danni a comprendere anche quello da perdita di chance, essendo altro il problema dell'individuazione e, quindi, dell'allegazione dei fatti costitutivi di questa tipologia di danni, che evidentemente possono e devono essere specificamente allegati nell'atto introduttivo ma anche, in una situazione di incertezza, emergere dall'espletamento dell'istruzione, specie se avvenuta mediante consulenza tecnica. Ulteriore tappa fondamentale nell'elaborazione del c.d. danno da perdita di chance, con particolare riferimento alla responsabilità medica, è segnata dalla giurisprudenza di legittimità nel 2008, con particolare riferimento all'omessa diagnosi di un processo morboso terminale e conseguenti perdita di chance di conservare una migliore qualità della vita e/o perdita di chance di una vita più lunga. Tale omissione nega in particolare al paziente, oltre che di essere messo nelle condizioni di scegliere «cosa fare», nell'ambito di ciò che la scienza medica suggerisce per garantire la fruizione della salute residua fino all'esito infausto, anche di essere messo in condizione di programmare il suo essere persona e, quindi, in senso lato l'esplicazione delle sue attitudini psico-fisiche, in vista e fino a quell'esito. Nell'ipotesi di possibilità di intervenire mediante intervento cosiddetto palliativo, l'omessa diagnosi, determinando un ritardo della possibilità di esecuzione di tale intervento, cagiona al paziente un danno alla persona per il fatto che nelle more egli non ha potuto fruire di tale intervento e, quindi, ha dovuto sopportare le conseguenze del processo morboso e particolarmente il dolore, in quanto la tempestiva esecuzione dell'intervento palliativo avrebbe potuto, sia pure senza la risoluzione del processo morboso, alleviare le sue sofferenze (Cass. III, n. 23846/2008; in senso conforme, più di recente, Cass. III, n. 11522/2014). Premesso quanto innanzi, Cass. III, n. 23846/2008, cit., chiarisce che il diritto al risarcimento del danno si atteggia quale perdita di chance nel caso in cui l'omessa diagnosi del processo morboso terminale abbia determinato la tardiva esecuzione di un intervento chirurgico, che normalmente sia da praticare per evitare che l'esito definitivo del processo morboso si verifichi anzitempo, cioè prima del suo normale decorso. In tale caso deve però risultare che, per effetto del ritardo, sia andata perduta dal paziente la «chance» di conservare, durante quel decorso, una migliore qualità della vita e/o la «chance» di vivere alcune settimane od alcuni mesi in più, rispetto a quelli poi effettivamente vissuti. In caso di colpevole ritardo nella diagnosi di patologie ad esito infausto, l'area dei danni risarcibili, però, non si esaurisce nel pregiudizio recato alla integrità fisica del paziente, né nella perdita di chance di guarigione, ma include la perdita di un "ventaglio" di opzioni con le quali scegliere come affrontare l'ultimo tratto del proprio percorso di vita, che determina la lesione di un bene reale, certo - sul piano sostanziale - ed effettivo, apprezzabile con immediatezza, qual è il diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali; in tale prospettiva, il diritto di autodeterminarsi riceve positivo riconoscimento e protezione non solo mediante il ricorso a trattamenti lenitivi degli effetti di patologie non più reversibili, ovvero, all'opposto, mediante la predeterminazione di un percorso che porti a contenerne la durata, ma anche attraverso la mera accettazione della propria condizione. Nel ribadire il principio Cass. III, n. 10424/2019, ha cassato con rinvio la decisione di merito la quale aveva rigettato la domanda risarcitoria, fatta valere "iure hereditatis", esclusivamente sulla base dell'assenza di prova che la ritardata diagnosi del carcinoma avesse compromesso "chances" di guarigione della paziente o, quantomeno, di maggiore e migliore sopravvivenza, ignorando che l'accertato negligente ritardo diagnostico aveva determinato la lesione del diritto della stessa di autodeterminarsi. Con particolare riferimento poi al giudizio di liquidazione del danno da perdita della chance assumono rilievo sia l'aspetto della prossimità della situazione fattuale al conseguimento del risultato sperato, sia il profilo della maggiore o minore idoneità a garantire questo risultato. Sotto il primo aspetto, il valore della perdita dipenderà dalla sufficienza del comportamento tenuto o mancato, da parte del responsabile, a determinare il risultato sperato ovvero dalla necessità, al contrario, dell'intervento di ulteriori evenienze, da valutarsi caso per caso quanto alla probabilità o solamente alla possibilità del loro accadimento. Sotto il secondo aspetto, come statuisce la in esame, rileverà l'idoneità in concreto della situazione a determinare il risultato sperato, cioè la probabilità o la mera possibilità del conseguimento del risultato, anche in termini percentuali. Il medesimo iter logico-giuridico porta la Suprema Corte nel 2014 a ritenere che anche l'errata esecuzione di un intervento chirurgico, praticabile per rallentare l'esito certamente infausto di una malattia sia fonte di danno per la perdita per il paziente della chance di vivere per un periodo di tempo più lungo rispetto a quello poi effettivamente vissuto (c.d. perdita di chance di una vita più lunga). In tale eventualità, le possibilità di sopravvivenza, misurate in astratto secondo criteri percentuali, rilevano ai fini della liquidazione equitativa del danno, che dovrà altresì tenere conto dello scarto temporale tra la durata della sopravvivenza effettiva e quella della sopravvivenza possibile in caso di intervento chirurgico corretto (Cass. III., n. 7195/2014). Per il rilievo del fattore tempo, ai fini del risarcimento del danno, a prescindere anche dalla teorizzazione del danno da perdita di chance, si veda, ex plurimis, Cass. III, n. 7345/1999. Per essa qualora un intervento chirurgico abbia esito negativo, rendendo immediata anziché allontanare nel tempo o evitare una menomazione, e tale esito sia imputabile alla responsabilità del medico la compromissione arrecata alla salute del paziente va identificata, ai fini della liquidazione dei danni, tenendo presente il momento in cui la stessa si sarebbe prodotta naturalmente. Nella specie si trattava di responsabilità per non aver correttamente informato l'interessato circa i rischi dell'intervento. Con il detto intervento del 2014 la giurisprudenza di legittimità riprende l'elaborazione del danno da perdita di chance con riferimento alla responsabilità medica con opportuni chiarimenti in tema di nesso eziologico e di danni risarcibili, così come elaborati con gli arresti del 2004 e del 2008 di cui innanzi. Occorre muovere dall'assunto per il quale nel caso in esame l'errore dei sanitari non è concausa del decesso, in quanto evento ritenuto ineluttabile anche se la condotta dei sanitari fosse stata ineccepibile. Esso è invece tale da far perdere al paziente le possibilità di sopravvivenza che gli sarebbero spettate se l'intervento fosse stato eseguito correttamente. Il termine di riferimento della causalità ai fini dell'individuazione dell'evento dannoso non è quindi la morte, e, per contro, la mancata guarigione del paziente, bensì la perdita della possibilità, da parte di quest'ultimo, di vedere rallentato il decorso della malattia e quindi aumentata la durata della sopravvivenza. L'evento di danno lamentato, in definitiva, coincide con la perdita di questa possibilità, cioè di vedere aumentata la durata della sopravvivenza, che si esprime in termini di perdita di chance laddove il danno non va commisurato alla perdita del risultato ma alla mera possibilità di conseguirlo. Per risarcire la perdita della chance di una vita più lunga, precisa Cass. III., n. 7195/2014, cit., è però errato far riferimento alla probabilità e non alla possibilità. Quando si discorre in termini di perdita di chance, vale a dire di perdita della possibilità di ottenere un risultato utile, occorre dare per scontato che non è possibile affermare che l'evento si sarebbe o meno verificato, ma si può dire che il paziente ha perso, per effetto di detto inadempimento, delle chance, che statisticamente aveva, anche tenuto conto della particolare situazione concreta (si veda, in precedenza, Cass. III, n. 4400/2004, cit.). Pertanto, una volta individuata una chance, per definizione consistente in mera possibilità (la cui esistenza sia però provata, sia pure in base a dati scientifici o statistici), va indagato il nesso causale della perdita di tale possibilità con la condotta riferita al responsabile, prescindendo dalla maggiore o minore idoneità della chance a realizzare il risultato sperato. Sicché, accertata la chance (quindi intermini di mera possibilità), nella successiva fase di accertamento del nesso di causalità materiale il ragionamento deve essere condotto in termini probabilistici con applicazione, in ambito civile, della regola del «più probabile che non». In casi quale quello di specie (perdita di chance di una vita più lunga) sussiste dunque il nesso causale se l'errore medico ha comportato «più probabilmente che non» la perdita della possibilità di una vita più lunga da parte del paziente, accertata scientificamente o statisticamente, in caso di intervento chirurgico corretto (in ipotesi anche sulla base di indagini epidemiologiche). Nell'ipotesi di perdita di chance di una vita più lunga, come detto, la perdita di chance è difatti, in sé, danno evento causalmente connesso alla condotta dell'agente, in quanto evento di danno e conseguenze dannose astrattamente risarcibili coincidono, differentemente dall'ipotesi di danno da perdita di chance, quale conseguenza dannosa risarcibile di un diverso evento di danno, dato dalla lesione di altro bene giuridico, quale, ad esempio, il diritto alla salute. In questa seconda accezione, la perdita di chance rileva infatti soltanto sotto il profilo della consequenzialità immediata e diretta ex art 1223 c.c., rispetto alla lesione, già accertata come causalmente connessa alla condotta dell'agente, dell'integrità psico-fisica (si veda, per l'ipotesi di perdite di chance lavorative derivanti da lesioni imputabili a colpa medica neonatale, Cass. III, n. 3582/2013). Tuttavia, trattandosi di risarcibilità in astratto, essa necessita di un'operazione di quantificazione che non può prescindere dalla situazione concreta. Soltanto in questa fase successiva ed ulteriore, che è quella della quantificazione del risarcimento, torna rilevante l'idoneità della chance a produrre il risultato utile, nel senso che l'entità del risarcimento andrà commisurata al danno quantificato in ragione della maggiore o minore possibilità (quindi probabilità) di ottenere quel risultato, misurata eventualmente in termini percentuali. In forza delle suddette argomentazioni, nel caso della responsabilità medica, in particolare per intervento terapeutico o chirurgico errato, occorre verificare se questo abbia comportato, per quanto qui rileva, la perdita della possibilità di vivere più a lungo, anche soltanto per poco tempo (ricorrendo al c.d. «criterio del più probabile che non»). Una volta accertato il nesso causale tra l'errore medico ed il mancato rallentamento della progressione della malattia o comunque tra l'errore medico e l'accorciamento della possibile durata della vita, la perdita di questa chance è comunque, in ipotesi, risarcibile, quale entità a sé, giuridicamente ed economicamente valutabile. La percentuale astratta di realizzabilità della chance diventa invece oggetto di indagine, in un secondo momento, quando, tenuto conto della particolare situazione concreta, si dovrà addivenire alla quantificazione del risarcimento (Cass. III., n. 7195/2014; per l'applicazione del criterio del più probabile che non con riferimento alla perdita di chance, ancorché in materia di danno da lesione della libertà negoziale, si veda anche Cass. III, n. 21255/2013 per la quale, come per la causalità ordinaria, anche per la causalità da chance perduta, da intendere come possibilità di un risultato diverso e migliore, e non come mancato raggiungimento di un risultato solo possibile, l'accertamento del nesso di causalità materiale implica sempre l'applicazione della regola causale di funzione, cioè probatoria, del più probabile che non, sicché, in questo caso, la ricorrenza del nesso causale può affermarsi allorché il giudice accerti che quella diversa — e migliore — possibilità si sarebbe verificata «più probabilmente che non»). In tema di perdita di chance non patrimoniale nella materia della lesione del diritto alla salute Cass. III, n. 28993/2019 ha ribadito che essa consiste nella privazione della possibilità di un miglior risultato sperato, incerto ed eventuale (la maggiore durata della vita o la sopportazione di minori sofferenze) conseguente - secondo gli ordinari criteri di derivazione eziologica - alla condotta colposa del sanitario ed integra evento di danno risarcibile (da liquidare in via equitativa) soltanto ove la perduta possibilità sia apprezzabile, seria e consistente. Sicché, nella specie, è stata confermata la sentenza impugnata che aveva escluso la sussistenza di una perdita di chance rilevando che, anche in caso di corretta esecuzione della prestazione sanitaria, la possibilità di sopravvivenza della paziente era talmente labile e teorica da non poter essere determinata neppure in termini probabilistici. L'arresto di cui innanzi sembra seguire la ricostruzione della precedente Cass. III, n. 5641/2018 per la quale, difatti, il risarcimento con riferimento a perdita di chance non potrà essere proporzionale al "risultato perduto" (nella specie, maggiori chance di sopravvivenza di un paziente al quale non era stata diagnosticata tempestivamente una patologia tumorale con esiti certamente mortali), ma andrà commisurato, in via equitativa, alla "possibilità perduta" di realizzarlo (intesa quale evento di danno rappresentato in via diretta ed immediata dalla minore durata della vita e/o dalla peggiore qualità della stessa). Tale "possibilità", per integrare gli estremi del danno risarcibile, deve necessariamente attingere ai parametri della apprezzabilità, serietà e consistenza, rispetto ai quali il valore statistico-percentuale, ove in concreto accertabile, può costituire solo un criterio orientativo, in considerazione della infungibile specificità del caso concreto. La statuizione da ultimo citata fonda peraltro sull'argomentazione per la quale il c.d. "modello patrimonialistico", che storicamente ha costituito il riferimento teorico della evoluzione giurisprudenziale in tema di perdita di chance, mal si concilia con la perdita della possibilità di conseguire un risultato migliore sul piano non patrimoniale; la chance patrimoniale, infatti, presenta i connotati dell'interesse pretensivo (mutuando tale figura dalla dottrina amministrativa), e cioè postula la preesistenza di un quid su cui sia andata ad incidere sfavorevolmente la condotta colpevole del danneggiante, impedendone la possibile evoluzione migliorativa, mentre la chance "non pretensiva", pur essendo anch'essa rappresentata, sul piano funzionale, dalla possibilità di conseguire un risultato migliorativo della situazione preesistente (segnatamente nel sistema della responsabilità sanitaria), è morfologicamente diversa dalla prima, in quanto si innesta su una preesistente situazione sfavorevole (cioè patologica), rispetto alla quale non può in alcun modo rinvenirsi un quid inteso come preesistenza positiva. Ne consegue che, in sede risarcitoria, il giudice di merito deve inevitabilmente tener conto di tale diversità, sia pure sul piano strettamente equitativo, ai fini della liquidazione del danno. La responsabilità da violazione del diritto al consenso informato: fondamentoIl consenso informato al trattamento sanitario è considerato un principio fondamentale in materia di tutela della salute ed è in atto un'evoluzione giurisprudenziale tale da garantire espansione alla tutela del relativo diritto del paziente, a presidio del suo diritto all'autodeterminazione quale estrinsecazione della dignità umana. Ad esso corrisponde uno specifico obbligo/dovere di informazione gravante in capo al medico, che ha fonte nel contratto o nel contatto sociale qualificato oltre che in fonti sovranazionali, in norme interne (anche di rango costituzionale) e nel codice deontologico di categoria, oltre che nella recente l. 22 dicembre 2017, n. 219, in vigore dal 31 gennaio 2018 e recante “norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, Delle disposizioni da ultimo citate si tratterà all'esito della disamina dei principi elaborati nella presente materia dalla giurisprudenza in quanto, cristallizzati, almeno in parte, nella nuova normativa e comunque sempre attuali quali chiavi di lettura delle relative norme. Il principio del consenso informato, in particolare, trova il suo fondamento negli artt. 2 Cost., che tutela e promuove i diritti fondamentali della persona, e negli artt. 13 e 32 Cost., i quali stabiliscono, rispettivamente, che «la libertà personale è inviolabile» e che «nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario se non per disposizione di legge», così ponendo in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all'autodeterminazione e quello alla salute. Ogni individuo ha il diritto di essere curato oltre che di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura ed ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto nonché in merito alle eventuali terapie alternative. Trattasi di informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all'art. 32 comma 2 Cost. Sulla base del detto fondamento costituzionale del consenso informato, la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 3 della l. della Regione Piemonte 6 novembre 2007, n. 21, la quale, da un lato, prevede che nella detta regione il trattamento con sostanze psicotrope su bambini e adolescenti possa essere praticato solo quando i genitori o tutori nominati esprimano un consenso scritto, libero, consapevole, attuale e manifesto, dall'altro, affida alla Giunta regionale il compito di regolare le modalità per il rilascio del suddetto consenso. La Regione non si è quindi limitata a fissare una disciplina di dettaglio in ordine alle procedure di rilascio del suddetto consenso, in quanto il citato art. 3, allorché individua i soggetti legittimati al rilascio del consenso informato (genitori o tutori nominati), nonché le modalità con le quali esso deve essere prestato (scritto, libero, consapevole, attuale e manifesto), disciplina aspetti di primario rilievo dell'istituto nell'ambito considerato, sempre in assenza di analoga previsione da parte del legislatore statale e nonostante si tratti di un principio fondamentale in materia di tutela della salute, la cui conformazione è rimessa alla legislazione statale. Così argomentando la Consulta, nella specie, ha dichiarato incostituzionali anche i successivi commi del detto art. 3, in quanto contenenti previsioni strettamente connesse a quelle di cui al comma 1, e, quindi, anche esse, in contrasto con i citati parametri costituzionali (Corte cost. n. 438/2008; per il fondamento costituzionale del principio del consenso informato si vedano anche, tra le più recenti: Cass. III, n. 12205/2015). La necessità che il paziente sia posto in condizione di conoscere il percorso terapeutico si evince, altresì, da diverse leggi nazionali che disciplinano specifiche attività mediche. Tra esse si annoverano, oltre alle nuove disposizioni di cui alla citata l. n. 219 del 2017 (analizzate in un successivo paragrafo ad esse precipuamente dedicato),senza pretesa di esaustività: l'art. 3 della l. 21 ottobre 2017, n. 219, recante la nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale degli emoderivati; l'art. 6 della l. 19 febbraio 2004, n. 40, recante norme in materia di procreazione medicalmente assistita, e l'art. 33 della l. 23 dicembre 1978, n. 833, di istituzione del Servizio sanitario nazionale, la quale prevede che le cure sono di norma volontarie e nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario se ciò non è previsto da una legge. Numerose norme internazionali, altresì, prevedono la necessità del consenso informato del paziente nell'ambito dei trattamenti medici. In particolare, anche in questo caso senza pretesa di esaustività, l'art. 24 della Convenzione sui diritti del fanciullo (firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con l. 27 maggio 1991, n. 176), in forza della quale, premesso che gli Stati «riconoscono il diritto del minore di godere del miglior stato di salute possibile e di beneficiare di servizi medici e di riabilitazione», dispone che «tutti i gruppi della società in particolare i genitori ed i minori ricevano informazioni sulla salute e sulla nutrizione del minore». L'art. 5 della Convenzione sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina (firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata dall'Italia con l. 28 marzo 2001, n. 145, ma con strumento di ratifica non ancora depositato), prevede che «un trattamento sanitario può essere praticato solo se la persona interessata abbia prestato il proprio consenso libero ed informato». L'art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000), invece sancisce che «ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica» e che nell'ambito della medicina e della biologia deve essere in particolare rispettato, tra gli altri, «il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge». All'elencazione di cui innanzi non sfugge il codice deontologico di categoria (quello attualmente in vigore è stato adottato nel 2014 ma da ultimo modificato il 19 maggio 2016) che risulta permeato dal principio del consenso informato. Il riferimento è, in particolare, agli articoli: 13, circa la prescrizione di farmaci non ancora registrati o non ancora autorizzati al commercio (per il quale è previsto il consenso informato e scritto del paziente); 14, dovendo il medico adeguare l'organizzazione delle attività, al fine di garantire le più idonee condizioni di sicurezza del paziente, anche attraverso l'attenzione al processo di informazione e di raccolta del consenso, nonché alla comunicazione di un evento indesiderato e delle sue cause, nonché all'art. 15. Quest'ultimo, nel contemplare sistemi e metodi di prevenzione, diagnosi e cura non convenzionali, precisa che il medico garantisce sia la qualità della propria formazione specifica nell'utilizzo dei sistemi e dei metodi non convenzionali, sia una circostanziata informazione per l'acquisizione del consenso. L'articolo 20 cod. deont. prevede altresì che la relazione tra medico e paziente è costituita sulla libertà di scelta e sull'individuazione e condivisione delle rispettive autonomie e responsabilità, dovendo il medico perseguire l'alleanza di cura fondata sulla reciproca fiducia e sul mutuo rispetto dei valori e dei diritti e su un'informazione comprensibile e completa, considerando il tempo della comunicazione quale tempo di cura. Nel caso di rifiuto di prestazione professionale, quando gli vengano chieste prestazioni in contrasto con la propria coscienza o con i propri convincimento tecnico-scientifici e sempre che non sia di grave ed immediato nocumento alla salute della persona, il medico deve fornire ogni utile informazione e chiarimento per consentire la fruizione della prestazione (art. 22 cod. deont.). A quanto detto si aggiungono i doveri deontologici: di informare il paziente dell'impossibilità di continuare nella cura (art. 23 cod. deont.) e di trasmettere al nuovo medico le informazioni e la documentazione utili alla continuità delle cure, previo consenso scritto della persona assistita (art. 28 cod. deont.); di registrazione dei modi e dei tempi dell'informazione e del consenso informato, anche relativamente ai trattamento dei dati sensibili, nel caso di arruolamento di protocolli di ricerca (art. 25 cod. deont.); di registrazione nella cartella clinica dei modi e dei tempi dell'informazione e i termini del consenso o dissenso della persona assistita o del suo rappresentante legale, anche relativamente al trattamento dei dati sensibili, in particolare in casi di arruolamento in protocolli di ricerca (art. 26 cod. deont.). Doveri deontologici di informazione ancora più specifici sono poi previsti dal titolo IV del codice in esame, con riguardo sia al paziente che a soggetti terzi. A questi ultimi, ex art. 34 cod. deont., le informazioni possono essere fornite previo consenso esplicitamente espresso dalla persona assistita, fatto salvo quanto previsto agli artt. 10 e 12, allorché sia in grave pericolo la salute o la vita del soggetto stesso o di altri. In particolare medico deve garantire alla persona assistita o al suo rappresentante legale un'informazione comprensibile ed esaustiva sulla prevenzione, sul percorso diagnostico, sulla diagnosi, sulla prognosi, sulla terapia e sulle eventuali alternative diagnostico-terapeutiche, sui prevedibili rischi e complicanze, nonché sui comportamenti che il paziente dovrà osservare nel processo di cura, oltre che adeguare la comunicazione alla capacità di comprensione della persona assistita o del suo rappresentante legale, corrispondendo a ogni richiesta di chiarimento, tenendo conto della sensibilità e reattività emotiva dei medesimi, in particolare in caso di prognosi gravi o infauste, senza escludere elementi di speranza (art. 33 cod. deont.). Parimenti, deve essere rispettata la necessaria riservatezza dell'informazione e la volontà della persona assistita di non essere informata o di delegare ad altro soggetto l'informazione, riportandola nella documentazione sanitaria. Elementi di informazione utili per la comprensione della propria condizione di salute ed in merito agli interventi diagnostico-terapeutici devono altresì essere forniti dal medico anche al paziente minorenne (art. 33 cod. deont.), per poter considerare adeguatamente anche le sue opinioni (art. 35 cod. deont.). Sempre con particolare riferimento al paziente minorenne, oltre che al paziente incapace, l'art. 37 cod. deont. precisa che il consenso o il dissenso informati devono essere acquisiti dal rappresentante legale, con segnalazione, da parte del medico, alla competente Autorità dell'eventuale opposizione da parte del minore informato e consapevole o di chi ne esercita la potestà genitoriale, in merito ad un trattamento ritenuto necessario, pur procedendo, in relazione alle condizioni cliniche, tempestivamente alle cure ritenute indispensabili e indifferibili. Nella detta attività il medico deve cooperare con il rappresentante legale, perseguendo il migliore interesse del paziente e, in caso di contrasto, si avvale del dirimente giudizio previsto dall'ordinamento e, in relazione alle condizioni cliniche, procede comunque tempestivamente alle cure ritenute indispensabili e indifferibili. L'acquisizione del consenso o del dissenso è altresì un atto di specifica ed esclusiva competenza del medico, non delegabile, il quale non può intraprendere né prosegue in procedure diagnostiche e/o interventi terapeutici senza la preliminare acquisizione del consenso informato o in presenza di dissenso informato. La forma della manifestazione di volontà del paziente deve essere scritta e sottoscritta, o raccolta dal medico con altre modalità di pari efficacia documentale nei casi previsti dall'ordinamento e dal Codice e in quelli prevedibilmente gravati da elevato rischio di mortalità o da esiti che incidano in modo rilevante sull'integrità psico-fisica (art. 35 cod. deont.). Con particolare riferimento al trattamento da eseguirsi in condizioni di urgenza e di emergenza, il medico deve comunque assicurare l'assistenza indispensabile sempre nel rispetto della volontà del paziente, se espressa, ovvero in considerazione di eventuali dichiarazioni anticipate di trattamento (art. 36 cod. deont.). Tali ultime dichiarazioni (cioè quelle anticipate) devono essere espresse in forma scritta, sottoscritta e datata, da parte di persona capace e successive a un'informazione medica della quale deve restare traccia documentale. Esse, difatti, come precisa l'art. 39 cod. deont., hanno la funzione di provare la libertà e la consapevolezza della scelta sulle procedure diagnostiche e/o sugli interventi terapeutici che si desidera o non si desidera vengano attuati in condizioni di totale o grave compromissione delle facoltà cognitive o valutative che impediscono l'espressione di volontà attuali. Le disposizioni in esame devono altresì essere verificate, sempre dal medico, nella loro congruenza logica e clinica con la condizione in atto nel paziente. Le dichiarazioni anticipate di trattamento rilevano altresì in caso di assistenza di paziente con prognosi infausta o con definitiva compromissione dello stato di coscienza (art. 39 cod. deont). Dovere deontologico di corretta e completa informazione ricade in capo al medico anche con riferimento ai trattamenti coinvolgenti la sfera della sessualità, in materia di riproduzione, di contraccezione e di procreazione medicalmente assistita (artt. 42 e ss. cod. deont.), oltre che con riferimento a trattamenti sanitari inerenti persona in stato di limitata libertà personale (artt. 51 e ss. cod. deont.). Il dovere/obbligo della corretta informazione ricade quindi in capo al sanitario in ragione di norme di diritto sovranazionale, costituzionali oltre che di fonti ad essa subordinate e del relativo codice deontologico nonché del contratto concluso con il paziente ovvero in forza del «contatto sociale qualificato», dal quale sorgono gli obblighi propri della prestazione d'opera intellettuale/professionale. Un primo passo del legislatore verso una compiuta disciplina delle dichiarazioni di volontà in merito ai trattamenti sanitari, ancorché settoriale, vi è poi stato con la l. 20 maggio 2016, n. 76, recante la regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e la disciplina della convivenza, mediante la previsione del c.d. “tutore sanitario” (si veda infra). La Suprema Corte, difatti, in più occasioni ha chiarito che la diligente esecuzione della prestazione d'opera professionale, alla quale è tenuto il medico in forza del contratto o del «contatto sociale», implica l'informazione al paziente, nei termini di seguito specificati, gravante anche sulla struttura sanitaria ove operi il sanitario. Per la collocazione dell'obbligo di informazione nell'ambito della diligenza, con quanto ne consegue, potrebbe aggiungersi in questa sede, in termini di limiti all'operatività della limitazione di responsabilità di cui all'art. 2236 c.c., si veda, ex plurimis, Cass. III, n. 18334/2013. Con la citata sentenza la Suprema Corte ha ritenuto in particolare negligente la condotta consistente nella mancata adeguata informazione al paziente in merito al rischio di distacco della retina ed ai possibili rischi degli interventi chirurgici di inserzione di un cristallo artificiale. Il medico-chirurgo, come precisato dalla Suprema Corte, viene difatti meno all'obbligo a suo carico in ordine all'ottenimento del cosiddetto consenso informato ove non fornisca al paziente, in modo completo ed esaustivo, tutte le informazioni scientificamente possibili sull'intervento chirurgico che intende eseguire e, soprattutto, sul bilancio rischi/vantaggi dell'intervento stesso, a fortiori ove ricorrano fattori di pericolo che sconsiglino l'intervento, neppure cogentemente necessario. In applicazione del principio, la Suprema Corte ha difatti chiarito, anche con riferimento al c.d. danno da nascita indesiderata o da mancata diagnosi di malformazione del feto, che l'obbligo gravante sulla struttura sanitaria e sul medico di informare la paziente, che ad essi si sia rivolta per i controlli ecografici sul feto ai fini della relativa diagnosi morfologica (in particolare, nel caso in cui la visualizzazione del feto sia parziale), della possibilità di ricorrere a centri di più elevata specializzazione, sorge unicamente ove la struttura abbia assunto la relativa obbligazione di spedalità pur non disponendo di attrezzature all'uopo adeguate (Cass. III, n. 4540/2016; si vedano per il diritto al consenso informato, tra le più recenti, anche Cass. III, n. 12597/2017 e Cass. III, n. 11208/2017, la quale, in un caso di c.d. danno da nascita indesiderata, conferma che l'obbligo di completa informazione, gravante in capo al sanitario (ed alla struttura presso la quale opera), è correlato alla libertà del paziente di autodeterminazione). Già in questa sede sembra opportuno analizzare Cass. III, n. 28985/2019 in ordine a fondamento del consenso in esame oltre che in merito a profili che verranno sviscerati ulteriormente nei successivi paragrafi (danni risarcibili, nesso di causalità e riparto dell'onere probatorio). Nella materia che ci occupa, in particolare, la manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria costituisce esercizio del diritto fondamentale all'autodeterminazione in ordine al trattamento medico propostogli e, in quanto diritto autonomo e distinto dal diritto alla salute, trova fondamento diretto nei principi degli artt. 2, 13 e 32, comma 2, Cost.; pertanto, la circostanza che esso abbia trovato espressa previsione nelle fonti eurounitarie ed internazionali (art. 3, comma 1, Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e art. 5 Convenzione di Oviedo sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina) solo successivamente al trattamento terapeutico praticato (nella specie, risalente al 1989) non può essere invocata per sostenere l'inesistenza, in epoca antecedente, dello specifico obbligo del medico di informare correttamente il paziente della tipologia e modalità delle cure, dei benefici conseguibili, dei possibili effetti indesiderati e del rischio di complicanze anche peggiorative dello stato di salute. Circa la tipologia di danni conseguenza Cass. III, n. 28985/2019 conferma altresì che la violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni. Un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all'intervento e di subirne le conseguenze invalidanti, nonché un danno da lesione del diritto all'autodeterminazione, rinvenibile quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subìto un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute. Pertanto, nell'ipotesi di omissione od inadeguatezza diagnostica che non abbia cagionato danno alla salute ma che abbia impedito l'accesso ad altri più accurati accertamenti, la lesione del diritto all'autodeterminazione sarà risarcibile ove siano derivate conseguenze dannose di natura non patrimoniale, quali sofferenze soggettive e limitazione della libertà di disporre di se stessi, salva la possibilità della prova contraria (in senso conforme anche la precedente Cass. III, n. 11950/2013). Qualora venga allegato e provato, come conseguenza della mancata acquisizione del consenso informato, unicamente un danno biologico, ai fini dell'individuazione della causa "immediata" e "diretta" (ex art. 1223 c.c.) di tale danno-conseguenza, occorre accertare, come precisato dalla sentenza in esame, mediante giudizio controfattuale, quale sarebbe stata la scelta del paziente ove correttamente informato, atteso che, se egli avesse prestato senza riserve il consenso a quel tipo di intervento, la conseguenza dannosa si sarebbe dovuta imputare esclusivamente alla lesione del diritto alla salute determinata dalla successiva errata esecuzione della prestazione professionale, mentre, se egli avesse negato il consenso, il danno biologico scaturente dalla inesatta esecuzione della prestazione sanitaria sarebbe riferibile ab origine alla violazione dell'obbligo informativo, e concorrerebbe, unitamente all'errore relativo alla prestazione sanitaria, alla sequenza causale produttiva della lesione della salute quale danno-conseguenza. Le conseguenze dannose che derivino, secondo un nesso di regolarità causale, dalla lesione del diritto all'autodeterminazione, verificatasi in seguito ad un atto terapeutico eseguito senza la preventiva informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli, e dunque senza un consenso legittimamente prestato, devono comunque essere debitamente allegate dal paziente, sul quale grava l'onere di provare il fatto positivo del rifiuto che egli avrebbe opposto al medico, tenuto conto che il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla sua scelta soggettiva (criterio della cd. vicinanza della prova), essendo, il discostamento dalle indicazioni terapeutiche del medico, eventualità non rientrante nell'id quod plerumque accidit; al riguardo la prova può essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi il notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, non essendo configurabile un danno risarcibile in re ipsa derivante esclusivamente dall'omessa informazione. La detta Suprema Corte conclude poi nel senso che sebbene l'inadempimento dell'obbligo di acquisire il consenso informato del paziente sia autonomo rispetto a quello inerente al trattamento terapeutico (comportando la violazione dei distinti diritti alla libertà di autodeterminazione e alla salute), in ragione dell'unitarietà del rapporto giuridico tra medico e paziente - che si articola in plurime obbligazioni tra loro connesse e strumentali al perseguimento della cura o del risanamento del soggetto - non può affermarsi una assoluta autonomia dei due illeciti tale da escludere ogni interferenza tra gli stessi nella produzione del medesimo danno. È difatti possibile che anche l'inadempimento dell'obbligazione relativa alla corretta informazione sui rischi e benefici della terapia si inserisca tra i fattori "concorrenti" della serie causale determinativa del pregiudizio alla salute, dovendo quindi riconoscersi all'omissione del medico una astratta capacità plurioffensiva, potenzialmente idonea a ledere due diversi interessi sostanziali, entrambi suscettibili di risarcimento qualora sia fornita la prova che dalla lesione di ciascuno di essi siano derivate specifiche conseguenze dannose. Nella scia interpretativa di cui innanzi, con le conseguenze che ne derivano sotto molteplici aspetti, si inserisce anche la successiva Cass. III, n. 24471/2020 per la quale, in materia di responsabilità sanitaria, l'inadempimento dell'obbligo di acquisire il consenso informato del paziente assume diversa rilevanza causale a seconda che sia dedotta la violazione del diritto all'autodeterminazione o la lesione del diritto alla salute posto che, se nel primo caso l'omessa o insufficiente informazione preventiva evidenzia ex se una relazione causale diretta con la compromissione dell'interesse all'autonoma valutazione dei rischi e dei benefici del trattamento sanitario, nel secondo l'incidenza eziologica del deficit informativo sul risultato pregiudizievole dell'atto terapeutico correttamente eseguito dipende dall'opzione che il paziente avrebbe esercitato se fosse stato adeguatamente informato ed è configurabile soltanto in caso di presunto dissenso, con la conseguenza che l'allegazione dei fatti dimostrativi di tale scelta costituisce parte integrante dell'onere della prova - che, in applicazione del criterio generale di cui all'art. 2697 c.c., grava sul danneggiato - del nesso eziologico tra inadempimento ed evento dannoso (in questo senso già Cass. III, n. 19199/2018). Ciò, per la citata Cass. III, n. 24471/2020 , non esclude comunque che, anche nel caso in cui venga dedotta la violazione del diritto all'autodeterminazione sia indispensabile allegare specificamente quali altri pregiudizi, diversi dal danno alla salute eventualmente derivato, il danneggiato abbia subito, dovendosi negare un danno in re ipsa. La struttura dell'illecito da mancato consenso informato La Struttura della fattispecie di illecito, sia esso contrattuale o extracontrattuale, che si ricollega all'esercizio dell'attività medica sul paziente senza la previa acquisizione del di lui consenso informato, circa le implicazioni, i rischi e le conseguenze dell'attività stessa, risente della ratio del diritto ad essere informati in merito alla direzione dell'attività medica sulla propria persona ed a consentirla. Il consenso informato, difatti, costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario. Senza di esso l'intervento del medico è sicuramente illecito, al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessità, anche quando è nell'interesse del paziente, rappresentando la pratica del consenso libero e informato una forma di rispetto per la libertà dell'individuo ed un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi. Il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico ma anche di eventualmente rifiutarlo o di rifiutare una data terapia o di decidere consapevolmente la relativa interruzione, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. Ciò è argomentato dalla Suprema Corte in considerazione del principio personalistico che anima la Costituzione, la quale vede nella persona un valore etico in sé e guarda al limite del «rispetto della persona umana» in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell'integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive, oltre che in ragione della nuova dimensione che ha assunto la salute. Essa è difatti intesa non più come semplice assenza di malattia bensì come stato di completo benessere fisico e psichico e, quindi, coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza (Cass. I, n. 21748/2007). L'illecito in esame si fonda sulla tradizionale distinzione, in materia di illecito civile (sia esso contrattuale o extracontrattuale) tra danno evento (che presuppone individuazione dell'evento che lo integra) e danno conseguenza, cioè le conseguenze dannose del detto evento, che fanno sorgere il diritto al risarcimento (sulla tradizionale distinzione tra danno evento e danno conseguenza nell'illecito civile si vedano, per tutte, Cass. S.U. , n. 26974/2008 e Cass. S.U., n. 26972/2008). Il danno evento nella fattispecie in esame si sostanzia nella tenuta di una condotta omissiva seguita da una commissiva. In particolare esso si verifica per il sol fatto del compimento, in assenza del necessario consenso informato, di atti medici, siano essi atti implicanti ingerenza fisica (come nel caso di intervento chirurgico), psico-fisica (anche soltanto posti in essere tramite attività persuasiva costituente atto medico, come nel caso dell'intervento eseguito da un medico psichiatra) ovvero consistenti in somministrazione di farmaci. Il danno conseguenza, che l'art. 1223 c.c. indica quale perdita o mancato guadagno, è rappresentato dagli effetti prodotti dal descritto comportamento del medico, omissivo seguito da comportamento commissivo, sulla sfera della persona del paziente, considerata nella sua rilevanza di condizione psico-fisica posseduta prima del trattamento, la quale, se le informazioni fossero state data, avrebbe reso possibile decidere se assentire al trattamento (ex plurimis, Cass. III, n. 12205/2015, cit.). Sicché, il danno conseguenza nella fattispecie in esame si configura quale danno emergente. Esso difatti si sostanzia nella preclusione di esercitare le varie opzioni che l'informazione non omessa (seguita dalla condotta commissiva) avrebbe consentito, integrando essa, di per sé, lesione della libertà di autodeterminazione quale aspetto della libertà personale. Trattasi, in particolare, secondo un criterio di assoluta normalità, della possibilità di scegliere se restare nelle condizioni che, secondo il medico, imporrebbero il trattamento, anche se pregiudizievoli per il paziente (se del caso anche tali da condurre al suo decesso), scegliere di riflettere e di determinarsi successivamente oltre che scegliere di rivolgersi altrove, cioè ad altro medico o ad altra struttura, prima di determinarsi. L'informativa alla quale il medico è tenuto in vista dell'espressione del consenso del paziente al trattamento sanitario, ove il consenso sia prestato, vale anche a determinare nel paziente una sorte di condivisione della stessa speranza del medico che tutto vada bene e che non si verifichi quanto di male potrebbe capitare, perché inevitabile, quale momento essenziale della necessaria «alleanza terapeutica» con il medico. In ipotesi di mancata informazione, dunque, chiarisce Cass. III, n. 12205/2015, cit., la descritta condizione di spirito è inevitabilmente destinata a realizzarsi, ingenerando manifestazioni di turbamento di intensità correlata alla gravità delle conseguenze verificatesi e non prospettate come possibili. Non potrebbe altresì giustificarsi un'analisi comparativa degli interessi in rilievo (prevalenza del bene vita o del bene salute rispetto ad altri possibili interessi configgenti). Ciò sarebbe difattipossibile solo nel caso in cui soggetti differenti siano titolari di interessi configgenti e sia dunque necessario stabilire quale debba prevalere, al fine del raggiungimento del fine perseguito, essendo invece esclusa la possibilità di regolare ab externo del conflitto nel caso di titolarità in capo allo stesso soggetto di interessi contrastanti, competendo solo a lui, se capace, la scelta di quale tutelare e di quale sacrificare (ex plurimis, Cass. III, n. 12205/2015, cit., Cass. III, n. 2847/2010, cit.). Sarebbe così risarcibile il danno non patrimoniale da acuto o cronico dolore fisico, nel caso in cui la scelta del medico di privilegiare la tutela dell'integrità fisica del paziente o della sua stessa vita ma a prezzo di sofferenze fisiche che il paziente avrebbe potuto scegliere di non sopportare se correttamente informato in merito ad una puntuale rappresentazione del dolore prevedibile (Cass. III, n. 23846/2008, cit.). Quanto innanzi evidenziato rileva con riferimento non solo all'inizio ma anche alla prosecuzione del trattamento sanitario, necessitanti di preliminare acquisizione del consenso informato. Rileva quindi,, anche l'eventuale dissenso informato oltre che eventuali dichiarazioni anticipate di trattamento (cioè di consenso o di dissenso informato) ancorché comportanti esito infausto, nei termini di seguito ulteriormente specificati trattando delle modalità e dei caratteri del consenso. La violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può dunque causare due diversi tipi di danni. Un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all'intervento e di subirne le conseguenze invalidanti. Uno da lesione del diritto all'autodeterminazione in se stesso, il quale sussiste quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, diverso dalla lesione del diritto alla salute, patrimoniale oppure non patrimoniale, sempre che, in tale ultimo caso, sia di apprezzabile gravità (ex plurimis, Cass. III, n. 11950/2013). Condizione di risarcibilità del danno non patrimoniale conseguente all'esecuzione del trattamento sanitario in assenza di consenso informato, come precisa la Suprema Corte, è difatti che esso varchi la soglia della gravità dell'offesa, secondo i canoni di cui all'art. 2056 c.c.; così comportando conseguenze pregiudizievoli di apprezzabile gravita e che superino la soglia minima di tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale e che non sia futile, ossia consistente in meri disagi o fastidi (ex plurimis, Cass. III, n. 12205/2015, cit., e Cass. III, n. 2847/2010 cit.; per l'elaborazione in generale del danno non patrimoniale per lesione di diritti-interessi di rango costituzionale, in termini di necessaria incisione del diritto oltre un certo livello minimo di tollerabilità, da determinarsi da parte del giudice nel bilanciamento tra principio di solidarietà e di tolleranza secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico, si vedano, per tutte, Cass. S.U., n. 26972/2008, cit., e Cass. S.U., n. 26974/2008). Dalla stessa logica di cui innanzi muove altresì la Suprema Corte per ritenere che il consenso informato vada acquisito anche qualora la probabilità di verificazione dell'evento sia così scarsa da essere prossima al fortuito o, al contrario, sia così alta da renderne certo il suo accadimento, poiché la valutazione dei rischi appartiene al solo titolare del diritto esposto ed il professionista o la struttura sanitaria non possono ometterle in base ad un mero calcolo statistico (Cass. III, n. 19731/2014). Applicando il principio di cui innanzi, Cass. III, n. 12205/2015, cit., precisa che nel caso di intervento chirurgico il danno conseguenza in esame è altresì caratterizzato dalla sofferenza e dalla contrazione della libertà del paziente di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente, durante l'esecuzione dell'intervento oltre che della relativa convalescenza, dalla diminuzione che lo stato del paziente subisce per effetto dell'attività demolitoria, che abbia eliminato, sebbene a fini terapeutici, parti del corpo ed eventualmente le funzionalità di esse. Potrebbe infine il danno caratterizzarsi in termini di «perdita relativa proprio ad aspetti della salute del paziente», con riferimento alla possibilità che la facoltà di autodeterminazione avrebbe potuto indirizzarsi nel rivolgersi altrove. Ciò sempre che si rilevi, precisa la Suprema Corte, in relazione alla patologia, la possibilità di un intervento meno demolitorio ovvero solo determinativo di minore sofferenza (circa la struttura della fattispecie astratta del danno da violazione del diritto al consenso informato, si veda anche, ex plurimis, Cass. III, n. 2847/2010, cit.). La privazione della libertà di autodeterminazione del paziente, in quanto preclusiva della possibilità di esercitare tutte le opzioni relative all'espletamento dell'atto medico e di beneficiare della conseguente diminuzione della sofferenza psichica, sarebbe fonte del conseguente danno risarcibile anche nel caso in cui il trattamento fosse, ex ante, necessitato sul piano terapeutico (ma non nel senso di eseguito in stato di necessità) oltre che risultato, ex post, integralmente risolutivo della patologia lamentata. Ciò, precisa la Suprema Corte, in ragione della ontologica differenza tra danno alla salute e danno da mancata acquisizione del consenso informato, in ipotesi, anche indirettamente incidente sul bene della salute (ex plurimis: Cass. III, n. 12205/2015, cit., Cass. III, n. 2847/2010, cit.; si veda altresì, con particolare riferimento al c.d. «danno da nascita indesiderata», Cass. III, n. 13/2010). In materia di analisi tendenti ad accertare l'infezione da Hiv ed al diritto del paziente sia ad essere informato che a rifiutare il trattamento, salvo i casi di necessità di intervenire ed impossibilità del paziente di esprimere il proprio consenso ovvero il caso di preminenti esigenze di interesse pubblico, quali la necessità di prevenire un contagio, Cass. III, n. 2468/2009, evidenzia che il diritto in oggetto è riconosciuto oltre che dall'art. 32 Corte anche dall'art. 5 comma 3, l. 5 giugno 1990, n. 135, contenente disposizioni inerenti il piano degli interventi urgenti in materia di prevenzione e lotta all'Aids. Nel senso dell'ontologica differenza tra i due diritti, quello alla salute e quello all'autodeterminazione, si esprime anche la giurisprudenza di legittimità penale. Essa precisa che la diversità dei due diritti, quello al consenso informato e quello alla salute, è palesata dalla circostanza per la quale, pur sussistendo il consenso informato, ben può configurarsi responsabilità da lesione della salute se la prestazione terapeutica sia tuttavia inadeguatamente eseguita, così come la lesione al diritto all'autodeterminazione non necessariamente comporta la lesione della salute, come avviene nel caso in cui manchi il consenso informato ma l'intervento terapeutico sortisca un esito assolutamente positivo. Ne consegue, conclude la Suprema Corte, che non integra il reato di lesione personale, né quello di violenza privata, la condotta del medico che sottoponga il paziente ad un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato, nel caso in cui l'intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis, si sia concluso con esito fausto, essendo da esso derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute del paziente, in riferimento anche alle eventuali alternative ipotizzabili e senza che vi fossero indicazioni contrarie da parte dello stesso (Cass. pen. S.U., n. 2437/2009). Sul punto, invero, la successiva giurisprudenza di legittimità, in sede civile, ancorché ai fini dell'individuazione del termine prescrizionale per l'esercizio dell'azione risarcitoria, sembra essersi spinta oltre, considerando irrilevante sia il rispetto dell'arte medica che l'esito del trattamento «non consentito». Cass. III, n. 15239/2014, infatti, ritiene non configurabile il delitto di lesioni volontarie gravi o gravissime nei confronti del medico che sottoponga il paziente ad un trattamento da questi non consentito, anche se abbia esito infausto e anche se l'intervento venga effettuato in violazione delle regole dell'arte medica. Ciò, però, sempre che sia comunque rinvenibile nella sua condotta professionale una finalità terapeutica ovvero se la terapia sia inquadrabile nella categoria degli atti medici. In tali ipotesi deve difatti escludersi che la condotta sia diretta a ledere, in quanto la terapia curativa in concreto perseguita risulta incompatibile con il dolo di provocare un'alterazione lesiva dell'integrità psicofisica del paziente, necessaria per integrare la fattispecie di lesioni personali dolose. Sicché, ove l'agente cagioni lesioni al paziente, sarebbe ipotizzabile, al più, il delitto di lesioni colpose, nel caso di evento riconducibile alla violazione di una regola cautelare. L'acquisizione del consenso informato del paziente, da parte del sanitario, costituisce dunque prestazione altra e diversa rispetto a quella avente ad oggetto l'intervento terapeutico. Sicché, l'errata esecuzione di quest'ultimo dà luogo ad un danno suscettibile di ulteriore e autonomo risarcimento rispetto a quello dovuto per la violazione dell'obbligo di informazione, anche in ragione della diversità dei diritti pregiudicati nelle due differenti ipotesi. In virtù della diversità dei diritti tutelati, all'autodeterminazione delle scelte terapeutiche ed all'integrità psicofisica, la Suprema Corte ha difatti cassato la decisione con la quale il giudice di merito aveva ritenuto «assorbito», nel risarcimento del danno da mancata acquisizione del consenso informato, anche il pregiudizio cagionato da un medico ortopedico per avere imprudentemente sottoposto ad intervento di artroscopia un paziente affetto da gotta, esponendolo al rischio – poi effettivamente concretizzatosi – di riacutizzazione flogistica (Cass. III, n. 2854/2015). In applicazione del medesimo principio Cass. III, n. 16892/2019 ha invece cassato la decisione con cui i giudici di merito, nel rigettare la domanda di risarcimento dei danni conseguenti alla omessa rilevazione e comunicazione della malformazione del feto, avevano pronunziato esclusivamente in ordine ai danni da mancata interruzione della gravidanza, per carenza di prova in ordine alla volontà della donna di non portare a termine la gravidanza, omettendo del tutto di valutare gli altri e diversi danni e le relative conseguenze, nella specie indicate nell'impossibilità di prepararsi, come genitori, psicologicamente e materialmente alla nascita di un figlio malformato. Ulteriore conseguenza della distinzione dei beni giuridici tutelati del necessario consenso informato (libertà di autodeterminazione circa il proprio stato psico-fisico) e dall'attività medica (la salute intesa come condizione psico-fisica del soggetto come tale) implica l'impossibilità della compensazione del detto danno con l'esito favorevole del trattamento. La diversità dei beni giuridici tutelari impedisce difatti l'operatività della compensatio lucri cum damno, potendo l'esito favorevole sulla salute del paziente del trattamento sanitario rilevare ai fini di liquidare il danno derivato dalla lesione del diritto al consenso informato. Ciò in quanto nell'operazione di stima del danno non patrimoniale sofferto dovrà tenersi conto dell'incidenza sulla salute del trattamento eseguito. Sicché, nel caso di trattamento non risolutivo o addirittura in parte inutilmente demolitorio ovvero dannoso ed inutile, si configurerà un ulteriore danno conseguenza, questa volta per lesione anche del diritto alla salute del paziente, è la stima globale sarà necessariamente diversa (ex plurimis, Cass. III, n. 12205/2015, cit., e Cass. III, n. 2847/2010, cit.; in termini generali, per la inconfigurabilità della compensatio lucri cum damno nel caso in cui il pregiudizio e l'incremento patrimoniale siano conseguenza del medesimo fatto illecito si veda, Cass. III, n. 20548/2014). Quanto appena detto in merito all'impossibilità nella specie di un'«analisi costi/benefici» vale, a fortiori, in caso di intervento chirurgico. Il beneficio tratto dall'esecuzione del trattamento sanitario, difatti, non «compensa» la perdita della possibilità di sottoporsi ad uno, in ipotesi, meno demolitorio ovvero ad uno che, se eseguito da altri, avrebbe provocato minore sofferenza. Ciò, precisa la Suprema Corte, anche nel caso in cui l'intervento si riveli l'unico possibile e, quindi, che se fosse stato eseguito altrove avrebbe avuto identica consistenza ed identici effetti. La verificazione del beneficio derivante dalla sua esecuzione non compenserebbe difatti la perdita della possibilità di scegliere di non sottoporsi all'intervento e, comunque, non compenserebbe la sofferenza psichica del paziente che, solo ex post, constatati gli effetti dell'intervento eseguito senza il suo consenso informato, si domanda se si sarebbe potuto fare altrimenti e se egli stesso avrebbe potuto scegliere diversamente, compresa la possibilità di non fare (Cass. III, n. 12205/2015, cit.). Modalità e caratteri del consenso La rilevanza anche costituzionale del principio del consenso informato ed il suo fondamento nel più generale diritto all'autodeterminazione condizionano anche le modalità di assolvimento al dovere/obbligo di informazione, gravante in capo al medico, oltre che modalità e caratteri del consenso informato. Esso, innanzitutto, deve essere personale, cioè provenire dal paziente, salvi i casi di sua incapacità di intendere o volere, specifico, esplicito e non tacito per facta concludentia, reale ed effettivo e non presunto, pur potendo essere raggiunta la prova della sua sussistenza mediante presunzioni (ex plurimis: Cass. III, n. 2177/2016; Cass. III, 19220/2013; con particolare riferimento all'operatività delle presunzioni solo ai fini probatori, Cass. III, n. 20984/2012; Cass. III, n. 2847/2010, cit.; Cass. I, n. 21748/2007, cit.; Cass. III, n. 7027/2001, anche essa per la possibilità di far riferimento a criteri presuntivi solo a fini probatori). Sicché, il medico viene meno all'obbligo di fornire idonea ed esaustiva informazione al paziente, al fine di acquisirne un valido consenso, non solo quando ometta del tutto di riferirgli della natura della cura prospettata, dei relativi rischi e delle possibilità di successo ma anche quando ne acquisisca con modalità improprie il consenso, non potendo considerarsi valido un consenso espresso oralmente (Cass. III, n. 19212/2015). Sembrerebbe però opportuno calare il principio di diritto di cui innanzi nel caso concretamente sottoposto alla Suprema Corte. Nella specie il Giudice di legittimità ha negato che, in relazione ad un intervento chirurgico effettuato sulla gamba destra di un paziente, privo di conoscenza della lingua italiana e sotto narcosi, potesse considerarsi valida modalità di acquisizione del consenso informato all'esecuzione di un intervento anche sulla gamba sinistra, l'assenso prestato dall'interessato verbalmente nel corso del trattamento. Il consenso, infine, per potersi dire «informato», deve essere consapevole e completo, dovendo basarsi su informazioni dettagliate fornite dal medico (e dalla struttura sanitaria nell'ambito della quale egli eserciti), ciò implicando la piena conoscenza della natura del trattamento sanitario, delle modalità e degli effetti nonché della sua portata ed estensione, dei suoi rischi (anche di insuccesso), dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative. Sicché, non adempie al detto obbligo il medico che ritenga di sottoporre al paziente, affinché lo sottoscriva, un modulo del tutto generico, dal quale non sia possibile desumere con certezza che il paziente abbia ottenuto in modo esaustivo le suddette informazioni (Cass. III, n, 24791/2008, cit.). Non rilevando, peraltro, la qualità del paziente ai fini della completezza ed effettività del consenso, potendo invece essa venire in considerazione solo in merito alle modalità con le quali deve essere veicolata l'informazione, ossia in ordine al suo dispiegarsi in modo adeguato al livello culturale del paziente ed in forza di una comunicazione che adotti un linguaggio a lui comprensibile in considerazione dello stato soggettivo e del grado di conoscenze specifiche che dispone. In applicazione del principio, di recente, la Suprema Corte ha ritenuto non adeguata l'informazione sui rischi connessi ad un intervento di cheratomia radiale, fornita ad una paziente mediante consegna di un depliant redatto dallo stesso oculista, che peraltro non riportava l'eventuale regressione del visus, statisticamente conseguente ad un simile intervento, anche quando correttamente eseguito. È considerata irrilevante la circostanza per la quale l'opuscolo fosse pienamente comprensibile dalla paziente, anche per il suo «idoneo livello culturale», giacché profilo diverso da quest'ultimo è la completezza dell'informazione, seppur pienamente intellegibile nei contenuti veicolati. Cass. III, n. 2177/2016, cit., in particolare, ha ritenuto anche irrilevante la circostanza per la quale la medesima paziente si fosse sottoposta ad analogo intervento chirurgico poche settimane prima, in quanto non in grado di esimere il medico che interviene successivamente ad acquisire il consapevole, completo ed effettivo consenso tramite una rinnovata informazione o, comunque, a saggiare la reale portata del bagaglio di conoscenze specifiche della paziente nell'immediatezza del trattamento (si veda anche Cass. III, n. 19220/2013, cit., nella specie il paziente era un avvocato). Le medesime argomentazioni si sono poste alla base della cassazione della sentenza di merito che, nella sostanza, aveva presunto il consenso del paziente argomentando dalla circostanza per la quale, essendo egli medico (nella specie radiologo) aveva le cognizioni scientifiche necessarie per rendersi conto del trattamento cui veniva sottoposto e, facendo peraltro parte della stessa struttura sanitaria convenuta, aveva un contatto frequente con i medici curanti. Sicché, per il giudice di merito, l'essersi docilmente sottoposto alla cura implicava il consenso alla stessa e, quindi, la sottoposizione alla terapia nella consapevolezza, derivante dalle sue condizioni mediche, dei rischi del trattamento. Nel caso di cui innanzi, la Suprema Corte non ha condiviso le suddette argomentazioni, basate sui principi della «consapevolezza» e della «conoscenza». Esse (consapevolezza e conoscenza), difatti, possono essere la conseguenza di una corretta informazione e, quindi, di un consenso ma non l'essenza stessa di esso. Sono, quindi, le sole modalità – ossia il quomodo delle informazioni che il medico deve fornire – che possono variare in considerazione del grado di conoscenze specifiche del paziente, mentre il consenso non può mai presumersi dovendo essere effettivo. Nella specie si era verificata una complicanza iatrogena dovuta al trattamento cortisonico, causatrice della necrosi delle due teste del femore, da considerarsi frequente in caso di trattamenti del genere. Sicché, se adeguatamente informato il paziente sarebbe stato in grado di scegliere se proseguire o meno la terapia indicata od eventualmente preferire un farmaco diverso, di minore durata e con un dosaggio più contenuto (cfr., Cass. III, n. 20984/2012, cit., nel caso di specie per converso, sembrerebbe quasi potersi configurare una sorte di dissenso presunto provato presuntivamente). Fermo restando quanto detto circa l'impossibilità di presumere il consenso, Cass. III, n. 20832/2006 ha chiarito che in caso di intervento sanitario chirurgico (anche solo relativamente) urgente, il consenso consapevole in ordine ai rischi che esso comporta, prestato dal paziente che l'ha richiesto, si considera implicitamente esteso anche alle operazioni «complementari» (qual è quella di sostegno, durante l'intervento, delle risorse ematiche del paziente) assolutamente necessarie e non sostituibili con tecniche più sicure. Il diritto al consenso informato del paziente, in quanto diritto irretrattabile della persona, va comunque e sempre rispettato dal sanitario, a meno che non ricorrano casi di urgenza, rinvenuti a seguito di un intervento concordato e programmato, per il quale sia stato richiesto ed ottenuto il consenso, e tali da porre in gravissimo pericolo la vita della persona - bene che riceve e si correda di una tutela primaria nella scala dei valori giuridici a fondamento dell'ordine giuridico e del vivere civile -, o si tratti di trattamento sanitario obbligatorio. Tale consenso è talmente inderogabile che non assume alcuna rilevanza, al fine di escluderlo, il fatto che l'intervento absque pactis sia stato effettuato in modo tecnicamente corretto, per la semplice ragione che, a causa del totale deficit di informazione, il paziente non è stato messo in condizione di assentire al trattamento, consumandosi nei suoi confronti, comunque, una lesione di quella dignità che connota l'esistenza nei momenti cruciali della sofferenza fisica e/o psichica (si veda Cass. III, n. 10423/2019, oltre che la precedente conforme Cass. III, n. 16543/2011). I principi di cui innanzi, circa i caratteri del consenso informato, sono stati altresì confermati da Cass. III, n. 23328/2019. Essa ha difatti sostenuto che, in tema di attività medico-chirurgica, il consenso informato debba basarsi su informazioni dettagliate, idonee a fornire la piena conoscenza della natura, portata ed estensione dell'intervento medico-chirurgico, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative, non essendo all'uopo idonea la sottoscrizione, da parte del paziente, di un modulo del tutto generico, né rilevando, ai fini della completezza ed effettività del consenso, la qualità del paziente, che incide unicamente sulle modalità dell'informazione, da adattarsi al suo livello culturale mediante un linguaggio a lui comprensibile, secondo il suo stato soggettivo ed il grado delle conoscenze specifiche di cui dispone. In applicazione del principio, la Suprema Corte ha ritenuto non adeguata l'informazione fornita ad una paziente dapprima mediante consegna di un modulo prestampato dal contenuto generico in occasione del primo intervento chirurgico e poi, senza indicazione degli esatti termini della patologia determinatasi a causa di questo, delle concrete prospettive di superamento della medesima attraverso una serie di interventi successivi. Con particolare riferimento ai rapporti tra consenso ed intervento di chirurgia estetica, in particolare, quando a quest'ultimo segua un inestetismo più grave di quello che si mirava ad eliminare o attenuare, la responsabilità del medico per il danno derivatone è conseguente all'accertamento che il paziente non sia stato adeguatamente informato di tale possibile esito, ancorché l'intervento risulti correttamente eseguito. Con la chirurgia estetica, difatti, il paziente insegue un risultato non declinabile in termini di tutela della salute, ciò che fa presumere, in applicazione dei criteri di razionalità e di normalità già esaminati nei precedenti paragrafi, che il consenso all'intervento non sarebbe stato prestato se egli fosse stato compiutamente informato dei relativi rischi. Senza che sia necessario accertare quali sarebbero state le sue concrete determinazioni in presenza della dovuta informazione. L'accertamento specifico delle concrete determinazioni è difatti necessario nel caso in cui l'intervento sia volto alla tutela della salute, sempre nei termini innanzi già evidenziati (Cass. III, n. 12830/2014). I descritti caratteri del consenso assumono mosse particolari nel caso di trattamento sanitario rivolto a soggetto incapace (transitoriamente o meno), in termini non solo di inizio di esso ma anche della sua cessazione, rilevando altresì l'eventuale dissenso informato oltre che eventuali dichiarazioni anticipate di trattamento (cioè di consenso o di dissenso informato), ancorché comportanti esito infausto. In tema di trattamento sanitario rivolto a soggetto incapace, il carattere personalissimo del diritto alla salute comporta che il riferimento all'istituto della rappresentanza legale non trasferisce sul tutore un potere «incondizionato» di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza. Nel consentire al trattamento medico o nel dissentire dalla prosecuzione dello stesso sulla persona dell'incapace, difatti, la rappresentanza del tutore è sottoposta a un duplice ordine di vincoli. Egli deve, innanzitutto, agire nell'esclusivo interesse dell'incapace, e, nella ricerca del «best interest», deve decidere non «al posto» dell'incapace né «per» l'incapace, ma «con» l'incapace. Necessita quindi ricostruire la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche. Muovendo dalle argomentazioni di cui innanzi, Cass. I, n. 21748/2007, cit., evidenzia che ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice – fatta salva l'applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell'interesse del paziente – può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario, in sé non costituente, oggettivamente, una forma di accanimento terapeutico, unicamente in presenza di due concorrenti presupposti. In primo luogo necessita che la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno. In secondo luogo, l'istanza deve essere realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona. Ove manchi anche solo uno dei due presupposti, precisa la Suprema Corte, il giudice deve negare l'autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa. Con particolare riferimento altresì all'eventuale dissenso informato oltre che ad eventuali dichiarazioni anticipate di trattamento (cioè di consenso o di dissenso informato), il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente non incontra difatti un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita. Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c'è spazio – nel quadro dell'«alleanza terapeutica» che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno – per una strategia della persuasione. Il compito dell'ordinamento è difatti anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza e c'è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Allorché il rifiuto abbia tali connotati non c'è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico, né il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, può essere scambiato per un'ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, giacché tale rifiuto esprime piuttosto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale (Cass. III, n. 21748/2007, cit.). Sicché, non potrebbe a priori negarsi tutela risarcitoria, per lesione dell'autodeterminazione, a chi sia stato sottoposto ad un trattamento sanitario che abbia consapevolmente rifiutato (in ipotesi una trasfusione di sangue) perché, ad esempio, in contrasto con la propria fede religiosa. La Suprema Corte a tal riguardo ritiene però che, in materia sussista il diritto di rifiutare determinate terapie, fondato sul combinato disposto degli artt. 32 Cost., 9 l. 28 marzo 2001, n. 145 (recante «ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d'Europa per la protezione dei diritti dell'uomo e della dignità dell'essere umano riguardo all'applicazione della biologia e della medicina»), nonché sulle previsioni del codice di deontologia medica (art. 40, ratione temporis applicabile). In presenza di un espresso rifiuto preventivo, non può quindi escludersi che il medico, di fronte ad un peggioramento imprevisto ed imprevedibile delle condizioni del paziente e nel concorso di circostanze impeditive della verifica effettiva della persistenza di tale dissenso, possa ritenere certo od altamente probabile che esso non sia più valido e praticare, conseguentemente, la terapia già rifiutata, ove la stessa sia indispensabile per salvare la vita del paziente. In applicazione del principio la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda di risarcimento dei danni morali proposta da un testimone di Geova. Egli, in particolare, traumatizzato aveva rifiutato all'atto del ricovero in ospedale, eventuali trasfusioni di sangue, ma i medici, stante l'aggravamento delle sue condizioni, rivelatosi nel corso dell'intervento chirurgico, essendo il paziente anestetizzato e mancando la possibilità di interpellare altri soggetti legittimati in sua vece, avevano ugualmente praticato una trasfusione indispensabile per salvargli la vita, ritenendo altamente probabile che l'originario rifiuto non fosse più valido (Cass. III, n. 4211/2007). In dottrina si è preso spunto dalla sentenza da ultimo citata analizzare la casistica concernente il rifiuto delle cure per motivi religiosi, attraverso i principi vigenti in materia di consenso informato, evidenziando gli aspetti critici relativi all'effettività delle affermazioni di volontà espresse dal paziente, alla luce del dibattito, sempre in evoluzione, sulla disciplina delle dichiarazioni anticipate di fine vita (Guerra, 27). Anticipando il Legislatore (intervenuto solo con la recente l. 22 dicembre 2017, n. 219, di cui infra ) in materia di consenso informato e di dichiarazione di volontà anticipate nei trattamenti sanitari (c.d. «testamento biologico»), se non in ipotesi specifiche di seguito evidenziate, la giurisprudenza di legittimità ha però successivamente precisato che ogni soggetto ha sempre diritto di rifiutare le cure mediche che gli vengono somministrate, anche quando ciò possa causarne la morte. Il dissenso alle cure mediche, per essere valido ed esonerare così il medico dal potere-dovere di intervenire, deve però essere espresso, inequivoco ed attuale, non essendo sufficiente una generica manifestazione di dissenso formulata ex ante ed in un momento in cui il paziente non era in pericolo di vita. Necessità invece un dissenso manifestato ex post, ovvero dopo che il paziente sia stato pienamente informato sulla gravità della propria situazione e sui rischi derivanti dal rifiuto delle cure. Sicché, il paziente che, per motivi religiosi (o di diversa natura), intendesse far constare il proprio dissenso alla sottoposizione a determinate cure mediche, per l'ipotesi in cui dovesse trovarsi in stato di incapacità naturale, ha l'onere di conferire ad un terzo una procura ad hoc nelle forme di legge, ovvero manifestare la propria volontà attraverso una dichiarazione scritta che sia puntuale ed inequivoca, nella quale affermi espressamente di volere rifiutare le cure quand'anche venisse a trovarsi in pericolo di vita. In applicazione del principio la Suprema Corte ha ritenuto che non ricorressero le condizioni per un valido dissenso in un caso in cui era risultato da un cartellino, rinvenuto addosso al paziente, testimone di Geova, al momento del ricovero, in condizioni di incoscienza, che recava l'indicazione «niente sangue», appunto perché la manifestazione di volontà non risultava essere stata raccolta, in modo inequivoco, dopo aver avuto conoscenza della gravità delle condizioni di salute al momento del ricovero e delle conseguenze prospettabili in caso di omesso trattamento (Cass. III, n. 23676/2008). Coma innanzi anticipato, un primo passo del legislatore verso una compiuta disciplina delle dichiarazione di volontà in merito ai trattamenti sanitari vi è stato con la l. 20 maggio 2016, n. 76, recante la regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e la disciplina della convivenza, con la previsione del c.d. «tutore sanitario». L'art. 1 (ed unico) l. 20 maggio 2016, n. 76, per quanto rileva ai presenti fini, dispone (al comma 39) che in caso di malattia o di ricovero, i conviventi di fatto hanno diritto reciproco di visita, di assistenza nonché di accesso alle informazioni personali, secondo le regole di organizzazione delle strutture ospedaliere o di assistenza pubbliche, private o convenzionate, previste per i coniugi e i familiari. Al comma 40 invece prevede che ciascun convivente di fatto possa designare l'altro quale suo rappresentante con poteri pieni o limitati in casi da esso specificati. In particolare la designazione di cui innanzi può operare: in caso di malattia che comporti incapacità di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute, ed in caso di morte, per quanto riguarda la donazione di organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie. La designazione deve infine essere effettuata in forma scritta ed autografa oppure, nel caso di impossibilità di redigerla, alla presenza di un testimone. Con riferimento ai rapporti tra diritto di autodeterminazione al trattamento sanitario, libertà di manifestazione del credo religioso ed obblighi sanitari del medico è intervenuta Cass. III, n. 29469/2020, Il Testimone di Geova, che fa valere il diritto di autodeterminazione in materia di trattamento sanitario a tutela della libertà di professare la propria fede religiosa, ha il diritto di rifiutare l’emotrasfusione pur avendo prestato il consenso al diverso trattamento che abbia successivamente richiesto la trasfusione, anche con dichiarazione formulata prima del trattamento medesimo, purché dalla stessa emerga in modo inequivoco la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita. La statuizione in oggetto getta altresì le basi, ancorché in un (dichiarato) obiter dictum, per l’interpretazione dell’articolo 1 della l. n. 219 del 2017 proprio circa i rapporti tra diritto di autodeterminazione in materia sanitaria, libertà di manifestazione del proprio credo religioso (mediante dissenso anticipato) e limiti degli obblighi professionali del medico. Essa difatti chiarisce che, nella specie, in forz del citato art. 1 (non applicabile alla fattispecie ratione temporis), la posizione del medico non sarebbe stata esente da garanzie. Tale norma prevede difatti non solo che «il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa del paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale», ma anche che «il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali». Sicché, conclude la Suprema Corte, il consenso ad un intervento chirurgico, al quale è consustanziale il rischio emorragico, con l’inequivoca manifestazione di dissenso all’esecuzione di trasfusione di sangue ove il detto rischio si avveri, significa esigere dal medico un trattamento sanitario contrario, oltre che alle buone pratiche clinico-assistenziali, anche alla deontologia professionale, con la conseguenza che, a fronte di tale determinazione del paziente, «il medico non ha obblighi professionali».Sulla scia di Cass. III, n. 29469/2020, è stato chiarito, da Cass. III, n. 26209/2022, che se il paziente presta il consenso ad un intervento a rischio emorragico e al contempo manifesta un inequivoco dissenso all'esecuzione di trasfusioni di sangue in caso di avveramento di tale rischio, il medico può legittimamente rifiutare l'intervento autorizzato, perché il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; tuttavia, qualora il sanitario opti comunque per l'esecuzione dell'intervento, è tenuto a rispettare il dissenso opposto, diversamente integrandosi la lesione del diritto all'autodeterminazione del paziente. L'illecito da mancato consenso informato e l'onere probatorio Nella materia in esame il riparto dell'onere della prova muove dalla natura della responsabilità del sanitario per l'aver intrapreso un trattamento sanitario in violazione del consenso informato e, quindi, per la lesione del diritto fondamentale all'autodeterminazione. Come detto il dovere/obbligo della corretta informazione ricade in capo al sanitario in ragione di norme di diritto sovranazionale, costituzionali oltre che di fonti ad essa subordinate e del relativo codice deontologico nonché del contratto concluso con il paziente ovvero in forza del «contatto sociale qualificato» dal quale sorgono gli obblighi propri della prestazione d'opera intellettuale/professionale. Sicché, a fronte dell'allegazione, da parte del paziente che agisce per il risarcimento dei danni, dell'inadempimento dell'obbligo di informazione è il medico gravato dell'onere della prova di avervi adempiuto (Cass. III, n. 2847/2010, cit.; si veda, per l'operatività del più generale principio della vicinanza della prova, Cass. III, n. 7027/2001, cit.; in senso difforme ma risalente nel tempo, in materia di chirurgia estetica, Cass. III, n.10014/1994, per la quale graverebbe in capo al paziente l'onere di fornire la prova del mancato puntuale adempimento da parte del professionista all'obbligo di informazione). Quanto appena evidenziato dovrà necessariamente fare i conti con la disciplina in merito alla responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie, introdotta con l. 8 marzo 2017, n. 24, qualora si dovesse escludere la configurabilità in capo al sanitario della responsabilità contrattuale in luogo di quella extracontrattuale (pur permanendo comunque la responsabilità – anche – contrattuale della struttura). In merito il dialogo dottrinal-giurisprudenziale potrebbe plausibilmente giungere a risultati esegetici non dissimili da quelli di cui innanzi, anche in applicazione del principio della «vicinanza della prova», fondante nel più generale articolo 2967 c.c., in forza del quale il riparto dell'onere della prova non può rigidamente saldarsi alla posizione delle parti (di debitore o di creditore), oltre che in considerazione della circostanza per la quale trattasi comunque di dovere imposto da fonti sovranazionali, costituzionali nonché da legge ordinaria e dal codice deontologico di categoria. La detta prova, anche nelle ipotesi di responsabilità extracontrattuale, potrà comunque essere fornita anche presuntivamente (a prescindere, quindi, dal soggetto onerato – paziente o medico). Il consenso non può dal sanitario essere presunto, né può rilevare un consenso tacito, dovendo invece essere necessariamente fornito espressamente dal paziente, dopo aver ricevuto un'adeguata ed esplicita informazione. Per contro, come precisa la Suprema Corte, presuntiva può comunque essere la prova che un consenso informato sia stato dato effettivamente ed in modo esplicito, gravando il relativo onere sempre in capo al medico (ex plurimis: Cass. n. 20984/2012, cit.; Cass. III, n. 7237/2011), perlomeno sino all'entrata in vigore della citata l. n. 24/2017. Occorre non confondere, difatti, il consenso presunto (come tale inammissibile) con la prova (presuntiva) di un consenso reale ed effettivo. Si ha consenso presunto nel caso in cui si ritiene che il soggetto, in quel dato contesto situazionale, avrebbe sicuramente dato il consenso se gli fosse stato richiesto. Si ha, invece, prova mediante indizi del consenso prestato quando, realmente, in un certo momento temporalmente definito c'è stata effettiva richiesta ed effettiva prestazione del consenso solo che la prova di esso viene data, non attraverso un documento scritto, ma attraverso testimonianze ed indizi (si faccia il caso che il documento con cui il paziente prestava il suo consenso sia andato distrutto). Il consenso deve tradursi in una manifestazione di volontà effettiva e reale, non rilevando neanche il consenso tacito per facta concludentia, ed è dunque solo la prova di esso che, in caso di impossibilità di prova documentale, potrà essere fornita con altri mezzi, non necessitando per la prova forma scritta ad substantiam ma essendo comunque necessaria una manifestazione reale, cioè concretamente avvenuta hic et nunc (Cass. III, n. 20984/2012, cit.). Tale criterio di riparto non muta anche nel caso in cui il medico si sia limitato alla diagnosi ed all'illustrazione al paziente delle conseguenze della terapia o dell'intervento che ritenga di dover compiere, allo scopo di ottenerne il necessario consenso informato. La responsabilità professionale del medico, anche nella situazione specifica appena illustrata, ha natura contrattuale e non precontrattuale, ovviamente, deve in questa sede aggiungersi, salvi diversi effetti frutto della l. n. 24/2017 (ex plurimis: Cass. n. 20984/2012, cit.; Cass. III, n. 2847/2010, cit., ma si veda, contra, per la natura precontrattuale, Cass. III, n. 10014/1994, cit., la quale, pur precisando che l'informazione è condizione indispensabile per la validità del consenso consapevole al trattamento sanitario, ha ritenuto che, il medico qualora omettesse di informare violerebbe il dovere di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto di prestazione d'opera professionale, di cui all'art. 1337 c.c.). La detta precisazione, potrebbe perdere parte della sua portata qualora si espandesse, anche nell'ambito della responsabilità medica, il recente meditato arresto della giurisprudenza di legittimità in materia di culpa in contrahendo, ancorché, per ora, con specifico riferimento alla responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione. L'importanza della precisazione della Suprema Corte in merito alla natura della responsabilità del sanitario potrebbe, invece, conservare ed anzi acquisire ulteriore vigore in forza del nuovo e già descritto intervento normativo in materia di responsabilità nelle professioni sanitarie, anche al fine di vagliarne l'effettiva portata innovativa in ordine alla natura della responsabilità medica. I mobili confini delle due responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale, con quanto ne consegue in termini di disciplina applicabile, sono difatti oggetto di un recentissimo revirement della Suprema Corte, in tema di responsabilità precontrattuale e della sua riconducibilità nell'area della contrattualità da «contatto sociale qualificato». La Suprema Corte, nel 2016, proprio con riferimento ad una ipotesi di responsabilità da «contatto sociale qualificato», sovverte l'orientamento, assolutamente maggioritario, sia in dottrina che in giurisprudenza, che riconduce la responsabilità per culpa in contrahendo nell'alveo della responsabilità extracontrattuale, configurandola quale estrinsecazione del più generale principio del neminem laedere di cui all'art. 2043 c.c. La vicenda di cui alla citata sentenza, in estrema sintesi, concerneva un contratto di appalto stipulato con la P.A., privo di approvazione ministeriale (necessaria ai sensi dell'art. 19 del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440). La Corte di Cassazione, premesso che il perfezionamento del vincolo contrattuale è subordinato a detta approvazione ministeriale, non essendo all'uopo sufficiente né la mera aggiudicazione né la formale stipula del contratto ad evidenza pubblica, ha affermato che in tale situazione l'eventuale responsabilità della P.A. si configura come precontrattuale, ai sensi degli artt. 1337 e 1338 c.c. (Cass. I, n. 14188/2016). Con particolare riferimento alla riconducibilità di tale tipo di responsabilità nell'ambito dell'illecito o del contratto, la sentenza di cui innanzi, all'esito di una attenta analisi storica e giurisprudenziale, rileva che elemento qualificante della culpa in contrahendo (responsabilità precontrattuale), non è più la colpa, bensì la violazione della buona fede, la quale, sulla base dell'affidamento, fa sorgere obblighi di protezione reciproca tra le parti. Il ragionamento culmina poi nelle conclusioni per le quali la responsabilità in esame è inquadrabile in quella di tipo contrattuale da «contatto sociale qualificato», inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni, ex art 1173 c.c., e dal quale derivano, a carico delle parti, non obblighi di prestazione ai sensi dell'art. 1174 c.c., bensì reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, giusta gli artt. 1175 e 1375 c.c. (con conseguente applicabilità del regime decennale di prescrizione ex art. 1946 c.c.). Una responsabilità, specifica la Suprema Corte, che origina da un contatto sociale «qualificato» dalla professionalità di una delle parti, in quanto connotato da uno scopo che le parti intendono perseguire nonché tale da instaurare un rapporto caratterizzato da obblighi preesistenti alla lesione, ancorché non si tratti (ancora) di obblighi di prestazione, bensì di obblighi di protezione correlati all'obbligo di buona fede. Per converso, nella responsabilità aquiliana, la rilevanza giuridica del contatto semplice, ossia non-qualificato, viene alla luce solo nel momento della lesione, generando l'obbligo risarcitorio. In conclusione, sebbene la sentenza citata inerisca la responsabilità precontrattuale della P.A., essa, proprio per le argomentazioni che la sorreggono, rappresenta un importante punto di svolta, costituendo un autorevole precedente di piena apertura alla moderna concezione della «culpa in contrahendo» come forma di responsabilità contrattuale, con tutto ciò che ne consegue in materia di disciplina applicabile. Alla più volte evidenziata distinzione tra lesione del diritto fondamentale all'autodeterminazione in forza di mancata informazione da parte del sanitario e lesione della salute corrisponde un differente regime dell'onere probatorio. Occorre difatti distinguere l'ipotesi nella quale la «questione del consenso informato» sia dall'attore correlata esclusivamente alla domanda risarcitoria per lesione del diritto all'autodeterminazione da quella ove sia correlata esclusivamente a domanda risarcitoria per lesione al diritto alla salute (costituzionalmente tutelato in base all'art. 32 Cost.) o ad entrambe. Soltanto in riferimento alla pretesa di risarcimento del danno alla salute (e, quindi, non al diverso danno da lesione del diritto all'autodeterminazione) derivante da atto terapeutico necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell'arte si impone, difatti, ove sia mancata l'adeguata informazione del paziente sui possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, la verifica circa la rilevanza causale dell'inadempimento dell'obbligo informativo rispetto al predetto danno. Gravando sullo stesso paziente, in questo caso, l'onere di fornire la prova, anche presuntiva, che ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l'intervento, non potendo altrimenti ricondursi all'inadempimento dell'obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute. In tal senso si veda, tra le tante, Cass. III, n. 2998/2016, che proprio in applicazione del principio, ha ritenuto esente da critiche la motivazione della sentenza impugnata che, accertata l'assenza di informazione in merito alla specifica complicanza poi insorta nel corso dell'intervento, necessitato e correttamente eseguito ma con conseguenze dannose per la salute, aveva ritenuto, presuntivamente, dal prestato consenso al trattamento nonostante la prospettazione di ben più gravi conseguenze, che il consenso sarebbe stato prestato anche qualora il paziente fosse stato informato delle conseguenze meno gravi (per l'applicazione del principio si vedano, ex plurimis, Cass. III, n. 2177/2016, cit.; Cass. III, n. 7237/2011, cit.; Cass. III, n. 20984/2012, cit.; Cass. III, n. 2847/2010, cit.). Parimenti, Cass. III, n. 2369/2018, per la quale, ove l'atto terapeutico, necessario e correttamente eseguito "secundum legem artis", non sia stato preceduto dalla preventiva informazione esplicita del paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, può essere riconosciuto il risarcimento del danno alla salute per la verificazione di tali conseguenze, solo ove sia allegato e provato, da parte del paziente, anche in via presuntiva, che, se correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi a detto intervento ovvero avrebbe vissuto il periodo successivo ad esso con migliore e più serena predisposizione ad accettarne le eventuali conseguenze (e sofferenze). In applicazione del principio la Suprema Corte ha cassato la sentenza di merito che, relativamente all'asseverata mancanza di consenso di una paziente rispetto ad un intervento di salpingectomia quale complicanza di un parto cesareo, aveva affermato la responsabilità del medico senza valutare se la paziente, ove adeguatamente informata dell'intervento di sterilizzazione tubarica, avrebbe rifiutato la prestazione (in senso conforme anche la successiva Cass. III, n. 27607/2019). In tema di consenso informato circa interventi chirurgici c.d. “riparatori”, Cass. III, n. 23328/2019 ha chiarito che ove l'atto terapeutico sia consistito in una serie di successivi interventi chirurgici di carattere "riparatorio" e dall'esito non risolutivo, inseriti nell'ambito di un pregiudizio già verificatosi a causa di un primo intervento, l'onere di dimostrare che, se adeguatamente informata, la paziente avrebbe verosimilmente rifiutato di sottoporvisi, ricade sul medico, proprio in considerazione dell'esito non risolutivo dei medesimi con riferimento ad intervento non correttamente eseguito. Nella scia interpretativa di cui innanzi, quali conseguenze della natura del consenso informato, si inserisce anche la successiva Cass. III, n. 24471/2020 per la quale, in materia di responsabilità sanitaria, l'inadempimento dell'obbligo di acquisire il consenso informato del paziente assume diversa rilevanza causale a seconda che sia dedotta la violazione del diritto all'autodeterminazione o la lesione del diritto alla salute posto che, se nel primo caso l'omessa o insufficiente informazione preventiva evidenzia ex se una relazione causale diretta con la compromissione dell'interesse all'autonoma valutazione dei rischi e dei benefici del trattamento sanitario, nel secondo l'incidenza eziologica del deficit informativo sul risultato pregiudizievole dell'atto terapeutico correttamente eseguito dipende dall'opzione che il paziente avrebbe esercitato se fosse stato adeguatamente informato ed è configurabile soltanto in caso di presunto dissenso, con la conseguenza che l'allegazione dei fatti dimostrativi di tale scelta costituisce parte integrante dell'onere della prova - che, in applicazione del criterio generale di cui all'art. 2697 c.c., grava sul danneggiato - del nesso eziologico tra inadempimento ed evento dannoso (in questo senso già Cass. III, n. 19199/2018). Ciò, per la citata Cass. III, n. 24471/2020 , non esclude comunque che, anche nel caso in cui venga dedotta la violazione del diritto all'autodeterminazione sia indispensabile allegare specificamente quali altri pregiudizi, diversi dal danno alla salute eventualmente derivato, il danneggiato abbia subito, dovendosi negare un danno in re ipsa. In dottrina si evidenzia il fondamento del consenso informato ai trattamenti sanitari nel più generale diritto all'autodeterminazione, facendone derivare corollari in termini di qualità dell'informazione. All'informazione, che deve essere funzionale all'esercizio del relativo diritto di autodeterminarsi, è tenuto il medico ma anche la struttura nella quale egli operi, con conseguente responsabilità risarcitoria in caso di lesione del sotteso diritto fondamentale (Todeschini, 695, il quale, evidenziando l'inquadramento, da parte della Suprema Corte, dell'informazione al trattamento sanitario nell'ambito della diligenza nell'esecuzione della prestazione professionale da parte del sanitario, ne fa derivare corollari in termini di inapplicabilità della limitazione di responsabilità di cui all'art. 2236 c.c., non operando essa in merito alla negligenza ma alla sola imperizia). La particolare fattispecie del trapianto di rene Con particolare riferimento al trattamento avente ad oggetto il trapianto di rene, implicando esso, comunque, anche con riferimento al donatore, l'esecuzione di trattamenti sanitari, il consenso agli stessi (ancorché informato) e le sue relative modalità di manifestazione sono peculiari, in ragione della specifica disciplina applicabile. La l. n. 458/1967, disciplinante il trapianto di rene tra persone viventi, prevede difatti l'intervento del giudice che autorizzi l'espianto del rene. L'autorizzazione è pronunciata in esito ad un controllo non meramente formale bensì sostanziale in merito al rispetto della procedura imposta dalla legge per raccogliere la volontà del donante. Pertanto, la sola adozione di tale provvedimento fa sorgere una presunzione semplice che la volontà del donante si sia correttamente formata, spettando a che nega tale circostanza, in ipotesi il donatore, provare il contrario. In merito alla peculiare ipotesi in esame ha preso posizione, nei suddetti termini, la Suprema Corte, in un caso nel quale nei vari gradi di merito il donatore aveva allegato di essere stato indotto alla donazione dietro promessa di un compenso in denaro. Nella specie il Giudice di legittimità ha chiarito anche circostanze inerenti la validità del contratto di assicurazione previsto dalla citata lette in favore del donatore. L'espianto del rene per scopo di donazione dell'organo forma difatti oggetto di uno speciale contratto tra il donatore e la struttura ospedaliera, per la cui validità è requisito legale la stipula, da parte dell'ospedale, di un'assicurazione contro gli infortuni e la malattia a beneficio del donatore, ai sensi dell'art. 5 della citata l. n. 458 del 1967, norma di immediata applicazione anche in assenza di emanazione del relativo regolamento. Sicché, l'ospedale, il quale proceda all'espianto del rene senza avere stipulato la suddetta polizza, risponde dei danni patiti dal paziente per la perdita del relativi benefici assicurativi (Cass. III, n. 1874/2013). Responsabilità da mancato consenso informato nel c.d. danno da nascita indesiderata (rinvio). Il dovere/obbligo di informazione in merito al trattamento sanitario e la correlativa tutela del diritto all'autodeterminazione del paziente assumono mosse particolari nell'ipotesi di danni derivanti da mancata diagnosi di malformazione del feto. Per tali motivi si rinvia alla disamina dei successivi paragrafi dedicati proprio al c.d. danno da nascita indesiderata. Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento. Come innanzi chiarito, un primo passo del legislatore verso una compiuta disciplina della dichiarazione di volontà in merito ai trattamenti sanitari vi è stato con la l. 20 maggio 2016, n. 76, recante la regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e la disciplina della convivenza, con la previsione del c.d. «tutore sanitario». La disciplina del consenso informato e delle disposizioni anticipate di trattamento, all'esito di una ventennale gestazione, è oggi oggetto della l. 22 dicembre 2017, n. 219, in vigore dal 31 gennaio 2018, in forza dell'approvazione da parte del Senato del d.d.l. (S.2801), già approvato (in un testo unificato) alla Camera il 20 aprile 2017 (C.1142). Trattasi, per un verso, di recepimento e cristallizzazione dei principi in materia elaborati dalla giurisprudenza di legittimità (di cui ai precedenti paragrafi) in merito a natura, funzione e caratteri del “diritto al consenso informato” oltre che in ordine alle “disposizioni di fine vita” ed alle relative conseguenze in merito ai profili di responsabilità del sanitario, e, per altro verso, della previsione del nuovo istituto delle “disposizioni anticipate di trattamento” (DAT). Quanto appena evidenziato porta ad una ulteriore conferma e condivisione dei detti principi di elaborazione giurisprudenziale, da ritenersi chiave di lettura della normativa in esame. In questa fase di prima lettura delle disposizioni in oggetto, è opportuno evidenziare come le dette norme siano esplicitamente volte a tutelare la vita, la salute, la dignità e l'autodeterminazione della persona, nel rispetto dei principi di cui agli artt. 2, 13 e 32 Cost. ed 1, 2 e 3, della Carte dei diritti fondamentali dell'Unione europea (art. 1). Fatta comunque salva l'applicazione delle norme speciali disciplinanti l'acquisizione del consenso informato per determinati atti o trattamenti, esse stabiliscono difatti che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito, tranne che nei casi espressamente previsti per legge, se privo del consenso libero e informato della persona interessata (art. 1), fondante la relazione di cura tra medico e paziente (che prevede altresì una pianificazione condivisa delle cure, ex art. 5), incontrandosi nel detto consenso l'autonomia decisionale del paziente e la competenza, l'autonomia professionale e la responsabilità del medico. In tale relazione sono coinvolti, se il paziente lo desidera, anche i suoi familiari o la parte dell'unione civile o il convivente ovvero una persona di sua fiducia (art. 1). Nelle situazioni di emergenza o di urgenza comunque il medico ed i componenti dell'equipe sanitaria assicurano comunque le cure necessarie, nel rispetto della volontà del paziente ove le di lui condizioni cliniche e le circostanze consentano di reperirla. Circa il «contenuto» dell'informazione e, quindi, in merito all'oggetto del consenso, l'art. 1 precisa che ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici ed ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell'eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell'accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi. Ferma restando, però, la possibilità per il paziente di rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni ovvero di indicare i familiari o una persona di sua fiducia incaricati di ricevere le informazioni in sua vece (dovendone rimanere di ciò traccia nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. Con particolare riferimento alle modalità di espressione del consenso, comunque inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico, la l. n. 219 del 2017 (art. 1) dispone che esso debba essere documentato in forma scritta che, nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, cede il posto alla videoregistrazione o all'utilizzo di dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare. Fermo restando quanto innanzi previsto, ogni persona capace di agire ha comunque il diritto di rifiutare (con le stesse forme previste per la manifestazione del consenso), in tutto o in parte, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso. Oltre alla possibilità di rifiuto vi è quella di revoca del consenso già prestato, manifestabile in qualsiasi momento e con le medesime forme previste per la manifestazione del consenso, anche nel caso in cui ciò comporti l'interruzione del trattamento,incluse nutrizione ed idratazione artificiali, da intendersi in termini di somministrazione, su prescrizione medica, di nutrimenti mediante dispositivo medici (così positivizzando l'approdo della giurisprudenza di legittimità già innanzi analizzata). Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo, sicché, proprio in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale. Il paziente non può comunque esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali. Il rifiuto del trattamento sanitario indicato dal medico o la rinuncia al medesimo non possono comportare l'abbandono terapeutico, pertanto sono sempre assicurati il coinvolgimento del medico di medicina generale , la terapia del dolore e l'erogazione delle cure palliative, di cui alla l. 15 marzo 2010, n. 38 (art.2), dovendosi peraltro il medico astenere, nel caso di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati, potendo invece ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua, in associazione con la terapia del dolore, previo consenso del paziente ed in presenza di sofferenza refrattarie ei trattamenti sanitari. Con particolare riferimento ai minori ed agli incapaci, l'art. 3 prevede che il consenso debba essere espresso o rifiutato dagli esercenti la responsabilità genitoriale o dal tutore, tenendo conto della volontà della persona minore, in relazione alla sua età e al suo grado di maturità, ed avendo come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita del minore. Proprio al fine della valorizzazione delle proprie capacità di comprensione e di decisione e, quindi, del rispetto dei principi di cui al precedente art. 1, i pazienti di cui innanzi devono comunque ricevere informazioni sulle scelte relative alla propria salute, in modo consono alle proprie capacità e strumentale all'espressione della relativa volontà. Nel caso di persona interdetta ex art. 414 c.c. il consenso è espresso o rifiutato dal tutore, sentito l'interdetto ove possibile e sempre in vista dello scopo di cui innanzi. Il consenso informato della persona inabilitata è invece espresso dalla stessa. Nel caso in cui sia stato nominato un amministratore di sostegno, la cui nomina preveda l'assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, il consenso informato è invece espresso o rifiutato anche dall'amministratore di sostegno ovvero solo da quest'ultimo, tenendo conto della volontà del beneficiario, in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere. Ex art. 3, comma 3, della l. n. 219 del 2017, nel caso in cui il rappresentante legale della persona interdetta o inabilitata oppure l'amministratore di sostegno (in assenza di DAT) o il rappresentante legale del minore rifiuti e cure proposte ed il medico ritenga invece le stesse appropriate e necessarie, “la decisione è rimessa al giudice tutelare” (su ricorso del rappresentante legale dell'interessato, del medico, del rappresentante legale della struttura sanitaria o dei soggetti di cui all'art. 406 e ss. c.c., in materia di amministrazione di sostegno). È però il caso di evidenziare, in questa sede, talune difficoltà applicative della disposizione di cui innanzi, non chiarendo essa come il giudice tutelare debba “decidere” ed in particolare in cosa debba consistere la decisione, e nulla disponendo per il caso in cui “il rifiuto” del “rappresentante legale della persona minore” evidenzi una vero e proprio cattivo esercizio della “responsabilità genitoriale”, invece conoscibile dal Tribunale per i minorenni. L'art. 4 disciplina le disposizioni anticipate di trattamento (DAT), In particolare, ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un'eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo aver acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, può, attraverso le disposizioni anticipate di trattamento, esprimere le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o a scelte terapeutiche ovvero a singoli trattamenti sanitari, comprese quindi anche le pratiche di nutrizione e idratazione artificiali. Il disponente, con le DAT, indica altresì una persona di sua fiducia (fiduciario) che ne faccia le veci e lo rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie, la cui accettazione avviene attraverso la sottoscrizione delle DAT o con atto successivo. L'incarico del fiduciario può essere oggetto di rinuncia così come revocato ad nutum dal disponente in qualsiasi momento. Le DAT, nel caso in cui non contengano l'indicazione del fiduciario o questi vi abbia rinunciato o sia deceduto o sia divenuto incapace, mantengono efficacia in merito alle volontà del disponente ed in caso di necessità il giudice tutelare provvede alla nomina di un amministratore di sostegno, in applicazione della relativa disciplina (artt. 404 e ss. c.c.). Le disposizioni anticipate in esame devono essere rispettate dal medico, fermo restando l'impossibilità di trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali, L'art. 4 prevede comunque che il medico possa disattendere le DAT, in tutto o in parte, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all'atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita. Nel caso di conflitto tra il fiduciario e il medico, per espressa disposizione dell'art. 4, comma 5, trova applicazione la disciplina di cui al precedente art. 3, comma 5, e, quindi, la “decisione” è rimessa al giudice tutelare. Con riferimento alla previsione in esame sono quindi in questa sede riproponibili parte delle critiche già evidenziate in ordine alla disposizione di cui al all'art. 3, comma 5, non chiarendo che il giudice debba procedere nominando egli un (altro) fiduciario ovvero un amministratore di sostegno. Le DAT, esenti dall'imposta di bollo e da qualsiasi altro tributo, imposta, diritto e tassa, necessitano della forma dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata oppure consegnata personalmente dal disponente presso l'ufficio dello stato civile del comune di residenza dello stesso, che provvede all'annotazione in apposito registro, ove istituito, oppure presso le strutture sanitarie (nel caso in cui siano adottate modalità telematiche di di gestione della cartella clinica ovvero il fascicolo sanitario elettronico o altre modalità informatiche di gestione dei dati degli iscritti). Sempre l'art. 4 prevede comunque l'utilizzabilità di forme che consentano di “disporre” attraverso videoregistrazione o altri dispositivi tali da consentire a disabile di comunicare. Con le medesime forme le DAT sono rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento; nei casi di emergenza ed urgenza la revoca può avvenire con dichiarazione verbale raccolta o videoregistrata da un medico, con l'assistenza di due testimoni. Con riferimento ai documenti atti ad esprimere le volontà del “disponente” in merito ai trattamenti sanitari depositati presso il comune di residenza ovvero presso un notaio antecedentemente al 31 gennaio 2018 (entrata in vigore della citata l. n. 219) trovano comunque applicazione le disposizioni che seguono (art. 7). Dubbi interpretativi già sorti tra gli operatoti hanno indotto il Ministero degli interni ad adottare, d'intesa con il Ministero della salute, la circolare n. 1/2018, recante “Chiarimenti” concernenti gli adempimenti di stretta competenza degli ufficiali del Governo presso i comini. In base ad essi, l'ufficio dello stato civile è legittimato a ricevere esclusivamente le DAT consegnate personalmente dal disponente residente nel comune, con sottoscrizione autografa, non essendo invece il detto ufficio legittimato a ricevere dichiarazioni provenienti da disponesti non residenti. L'ufficiale, che non potrà partecipare alla redazione delle DAT e non potrà fornire informazioni o avvisi in merito al loro contenuto, dovrà altresì limitarsi a verificare i presupposti della consegna (identità e residenza del consegnante) ed a ricevere le dichiarazioni. All'atto della consegna l'ufficiale dovrà infine fornire al disponente ricevuta, con l'indicazione dei dati anagrafici dello stesso e recante data firma e timbro dell'ufficio. La ricevuta di cui innanzi potrà essere apposta anche sulla copia della DAT eventualmente presentata dal disponente ed allo stesso riconsegnata trattenendo l'originale. L'ufficio, conclude la circolare in esame, ricevuta la dichiarazione deve (limitarsi a) registrare un ordinato elenco cronologico delle dichiarazioni presentate ed assicurare la loro adeguata conservazione in conformità ai principi di riservatezza dei dati personali di cui al d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196. Ciò in ragione dell'assunto per il quale la l. n. 219 del 2017 no ha disciplinato né previsto l'istituzione di un nuovo registro dello stato civile, rispetto a quelli contemplati dall'art. 14, comma 1, nn. 1-4-bis, r.d. 9 luglio 1939, n. 1238 In merito è intervenuto anche il vademecum dei notai sul “biotestamento”, consultabile sul sito notariato.it). Responsabilità da c.d. «nascita indesiderata»: il fondamentoLa responsabilità da c.d. «nascita indesiderata» ricorre quando la gestante perde la possibilità di abortire a causa del mancato rilievo, da parte del sanitario, dell'esistenza di malformazioni congenite del feto. Suo primo connotato è che al medico si imputa d'avere reso una prestazione diversa da quella che ci si sarebbe potuti attendere, consistita nel non aver dato alla gestante l'esatta informazione circa le condizioni del feto ed il rischio della nascita di un figlio menomato. Alla condotta di cui innanzi è ricollegata una responsabilità verso la madre, ma, si vedrà di seguito, anche del padre e dei fratelli del nato malato, per i sacrifici patrimoniali e non patrimoniali, che dovranno essere da loro sopportati. Della possibilità di configurare tale responsabilità si è discusso e, sotto veri aspetti, si discute anche nell'attualità, avendo riguardo al punto, se la donna, cui fosse stata data una esatta informazione, avrebbe potuto e voluto interrompere la gravidanza, avvalendosi di ciò che le è consentito dagli artt. 6 e 7 della l. n. 22 maggio 1978, n. 194. In particolare se ne discute sotto più aspetti: per stabilire se vi è nesso causale tra inadempimento del medico e nascita; se serva anche a connotare la nascita come danno ingiusto ed a renderne risarcibili le conseguenze e se, perciò, valga come criterio di selezione dei soggetti che possono essere considerati titolari di un diritto al risarcimento del danno. Ai fini che qui interessano, cioè la disamina dei profili innanzi evidenziati, rileva la normativa per la tutela sociale della maternità ed in particolare relativa all'interruzione della gravidanza, di cui alla l. 22 maggio 1978, n. 194. Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. Così recita l'art. 1 della legge appena citata, precisando però che l'interruzione volontaria della gravidanza non è mezzo per il controllo delle nascite, escludendo, quindi, la legittimità del c.d. aborto eugenetico. All'interruzione volontaria della gravidanza, entro i primi novanta giorni (c.d. «aborto profilattico»), è legittimata la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un «serio pericolo per la sua salute fisica o psichica» in relazione: ad un suo stato di salute; alle sue condizioni economiche, sociali o familiari; alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito (art. 4 della l. n. 194 del 1978). Per converso, l'interruzione volontaria della gravidanza dopo i primi novanta giorni (c.d. «aborto terapeutico») può essere praticata, ex articolo 6 della legge di cui sopra: a) quando la gravidanza o il parto comportino un «grave pericolo per la vita della donna»; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un «grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna». Quando però sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, e cioè quando il feto abbia raggiunto un grado di maturità tale da poter sopravvivere anche al di fuori del corpo materno, l'interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso sub a), cioè quando vi sia un grave pericolo per la vita della donna (art. 7 comma 2 della l. n. 194/1978). La legge citata, in particolare con gli articoli di cui sopra e previo bilanciamento di principi di rango costituzionale talvolta in conflitto, mira a tutelare: il diritto della donna alla maternità, di cui all'articolo 31 comma 2 Cost.; la salute della donna, ex articolo 32 Cost., nonché il «diritto del concepito alla vita», la cui situazione giuridica si colloca, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, tra i diritti riconosciuti e garantiti dall'art. 2 Cost. Il principio della tutela della vita umana sin dal suo inizio trova peraltro tutela anche in sede sovranazionale. Si veda, a tal riguardo, la Dichiarazione sui diritti del fanciullo, approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1959 a New York, (resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176), per la quale «il fanciullo, a causa della sua mancanza di maturità fisica ed intellettuale, necessita di una protezione e di cure particolari, ivi compresa una protezione legale appropriata, sia prima che dopo la nascita». Il bilanciamento dei detti diritti fondamentali, quando siano esposti a pericolo, si trova, come chiarito dalla Consulta, nella salvaguardia della vita e della salute della donna, garantendo però, quando sia possibile, la vita del feto. Di talché, la legge n. 194 del 1978, enunciando i principi di cui sopra e bilanciandoli come anzidetto, impedisce che l'aborto venga procurato senza seri accertamenti sulla realtà e serietà/gravità del danno o pericolo che potrebbe derivare alla donna dal proseguire della gestazione (e, quindi, impedisce anche l'aborto quale strumento di controllo delle nascite). La liceità dell'aborto, si legge difatti nelle statuizioni della Corte costituzionale, è dunque ancorata ad una «previa valutazione delle condizioni atte a giustificarla», cioè: alla «serietà» del pericolo per la salute fisica o psichica della donna, nel caso di aborto infratrimestrale, ed alla «gravità del pericolo per la salute fisica o psichica o per la vita della donna, e sempre che vi sia un processo patologico in atto, nel caso di interruzione della gravidanza dopo il primo trimestre. Per la tesi del bilanciamento degli interessi si vedano, per la giurisprudenza costituzionale, ex plurimis: Corte cost. n. 35/1997, per la quale l'abrogazione degli articoli 4, 5, 12 e 13 della legge in commento travolgerebbe disposizioni a contenuto normativo costituzionalmente vincolato sotto più aspetti in quanto renderebbe nullo il livello minimo di tutela necessaria dei diritti costituzionali inviolabili alla vita, alla salute, nonché di tutela necessaria della maternità, dell'infanzia e della gioventù»; Corte cost., n. 1146/1988, per la quale il diritto alla vita, inteso nella sua estensione più lata, è da iscriversi tra i diritti inviolabili di cui all'art. 2 Cost., in quanto appartenente «all'essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana». Corte cost. n. 26/1981, invece, riconoscendo il carattere fondamentale del diritto della donna alla salute, ha dichiarato inammissibile un referendum abrogativo avente ad oggetto l'articolo 6 citato, in quanto, nel suo contenuto essenziale, è norma costituzionalmente imposta dall'articolo 32 Cost. (si veda anche Corte cost. n. 16/1978 che si è espressa nel senso della non abrogabilità mediante referendum delle disposizioni legislative ordinarie a contenuto costituzionalmente vincolato). Parimenti dicasi per la pronuncia che sembrerebbe aver informato la stessa l. 22 maggio 1978, n. 194, Corte cost. n. 27/1975, per la quale il bilanciamento tra i diritti fondamentali alla vita del concepito (art. 2 Cost.) ed alla protezione costituzionale della maternità (art. 31 comma 1 Cost.), quando siano entrambi esposti a pericolo, si trova nella salvaguardia della vita e della salute della madre, dovendosi peraltro operare in modo che sia salvata, quando ciò sia possibile, la vita del feto. La giurisprudenza di legittimità, facendo propri i principi di cui sopra, così come elaborati dalla Corte costituzionale, ha affrontato le questioni: dell'esistenza del diritto alla interruzione della gravidanza e dei presupposti dello stesso; del danno cagionato alla donna dal sanitario per omessa informazione circa malformazioni o patologie del feto (non provocate dal medico), e, quindi, per il non aver potuto la gestante esercitare il diritto di cui sopra. La Cassazione ha altresì statuito in merito alla risarcibilità del danno (riflesso o diretto) subito dal marito della gestante ed alla risarcibilità del danno patito dal nato a seguito della lesione di un (preteso) diritto a non nascere se non sano. In estrema sintesi si tratta della tematica del danno da procreazione ed in particolare non del danno da «nascita contro la volontà del genitore», cioè del danno da c.d. gravidanza indesiderata che si potrebbe configurare nelle ipotesi di sterilizzazione non riuscita, bensì di danno da «nascita oltre la volontà del genitore» (Antezza, 2006, 7-8, 15). La struttura dell'illecito: causalità ed oneri probatori Come chiarito nel paragrafo precedente, la l. 22 maggio 1978, n. 194 ha introdotto la possibilità legale di ricorrere all'aborto, legittimando l'autodeterminazione della donna a tutela della vita ed anche della salute, ancorché nel rispetto delle evidenziate rigorose condizioni che legittimano l'interruzione volontaria della gravidanza (prima dei novanta giorni e dopo il loro decorso), quali bilanciamento di esigenze di primaria importanza. In assenza del cui rispetto l'aborto resta un delitto. Tali sono, ai sensi dell'art. 6 della citata legge, alternativamente, un grave pericolo per la vita della donna, derivante dalla gravidanza o dal parto, ed accertati processi patologici, tra i quali quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. Dopo il novantesimo giorno di gravidanza, difatti, la presenza delle condizioni previste per legge, in particolare dall'art. 6 della citata l. n. 194 che, per Corte cost. n. 27/1975, cit., si fonda sul principio costituzionale di non equivalenza tra la salvezza della madre, già persona, e quella dell'embrione, che persona deve ancora diventare, ha efficacia esimente da responsabilità penale e genera un vero e proprio diritto all'autodeterminazione della gestante di optare per l'interruzione della gravidanza. In detta ipotesi, quindi, l'impossibilità della scelta della madre, pur sussistendo le condizioni di cui all'art. 6 citato, è fonte di responsabilità civile, qualora sia imputabile a negligente carenza informativa da parte del medico curante. La gestante, profana della scienza medica, si affida difatti al professionista sul quale grava quindi l'obbligo di rispondere in modo tecnicamente adeguato alle sue richieste, senza limitarsi a seguire le direttive della paziente, che abbia espresso, in ipotesi, l'intenzione di sottoporsi ad un esame da lei stessa prescelto ma tecnicamente inadeguato a consentire una diagnosi affidabile sulla salute del feto. Quanto premesso consente di analizzare la struttura dell'illecito in esame. Esso, precisa la Suprema Corte, richiede che l'interruzione della gravidanza sia legalmente consentita e che, quindi, sia dimostrato (dall'attore) il grave pericolo di vita per la donna, derivante dalla gravidanza o dal parto, ovvero che sussistano e siano accertabili, anche mediante esami clinici, le rilevanti anomalie del nascituro ed il nesso eziologico (in termini di «più probabile che no») tra esse ed il grave pericolo per la salute (fisica o psichica) della donna (danno potenziale). Cioè che la conoscibilità, da parte della gestante, dell'esistenza di rilevanti anomalie o malformazioni del feto avrebbe generato uno stato patologico tale da mettere in pericolo la sua salute fisica o psichica. Per una recente applicazione del principio di veda Cass. III, n. 9251/2017, per la quale la mancanza della mano sinistra del nascituro non è una malformazione idonea a determinare un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, requisito imposto dall'art. 6, lett. b), della l. n. 194 del 1978 per far luogo all'interruzione della gravidanza dopo i primi 90 giorni dal suo inizio, sicché, non potendosi legittimamente ricorrere all'aborto, dall'omessa diagnosi dell'anomalia fetale non può derivare un danno risarcibile. Accertato il danno potenziale, occorre la prova della volontà della donna di non portare a termine la gravidanza e del danno effettivo (danno evento), eventualmente verificabile anche mediante consulenza tecnica d'ufficio, escludendo così l'ipotesi del danno in re ipsa. In assenza dei detti presupporti, difatti, l'aborto integrerebbe un reato, con conseguente esclusione dell'antigiuridicità del danno, dovuto non a colpa professionale bensì a precetto imperativo di legge (ex plurimis, per la struttura dell'illecito, Cass. S.U., n. 25765/2015). La donna che agisce per il risarcimento del danno, ex art. 2697 c.c., coerentemente peraltro al principio della «vicinanza della prova», ha dunque l'onere (oltre che di allegare inadempimento qualificato del sanitario) di provare non solo il danno ma che avrebbe esercitato la facoltà d'interrompere la gravidanza, ricorrendone le condizioni di legge che deve allegare e provare, ove fosse stata tempestivamente informata dell'anomalia fetale, sempre che il convenuto non dia per pacifiche le componenti di fatto essenziali della fattispecie (cioè quelle inerenti al fatto psichico da accertare). Il thema probandum, come precisato dalle citate Sezioni Unite del 2015, è difatti costituito da un fatto complesso, in quanto avente ad oggetto un accadimento composto da molteplici circostanze e comportamenti proiettati nel tempo, dovendo la prova vertere anche su un fatto psichico, cioè sullo stato psicologico della donna, su un'intenzione quale atteggiamento volitivo della donna che la legge considera rilevanti e che sono ad ella più vicini. Quest'onere può essere però assolto anche tramite praesumptio hominis, ex art. 2729 c.c., in base cioè ad inferenze desumibili non solo in forza di correlazioni statisticamente ricorrenti secondo l'id quod prelumque accidit (che peraltro il giudice civile non potrebbe accertare d'ufficio se non rientranti nella sfera del notorio ex art. 115 c.p.c.) ma soprattutto degli elementi di prova, quali, in ipotesi, il ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante o le sue pregresse manifestazioni di pensiero propense all'opzione abortiva. Grava invece sul medico la prova contraria, cioè che la donna non si sarebbe determinata all'aborto per qualsivoglia ragione personale. Il fatto psichico non è difatti suscettibile di rappresentazione immediata e diretta, non potendo quindi essere oggetto di prova in senso stretto, ed il relativo onere probatorio può essere assolto tramite la dimostrazione di altre circostanze che facciano ragionevolmente risalire, per via induttiva, all'esistenza del fatto psichico in oggetto, con la conseguente applicazione, per la verifica del nesso eziologico, del criterio causale del «più probabile che non», inteso come frequenza di un evento in una serie di possibilità date in forza di una concezione quantitativa o statistica della probabilità (ex plurimis, per il riparto dell'onere probatorio: Cass. S.U., n. 25765/2015; Cass. III, n. 27528/2013, per la quale, grava sull'attore la prova della sussistenza delle condizioni legittimanti l'interruzione della gravidanza ai sensi dell'art. 6, lett. b, della l. n. 194 del 1978, ovvero che la conoscibilità, da parte della stessa, dell'esistenza di rilevanti anomalie o malformazioni del feto avrebbe generato uno stato patologico tale da mettere in pericolo la sua salute fisica o psichica; Cass. III, n. 7269/2013, per la quale la prova della del fatto psichico della donna non può essere desunta dal solo fatto che la gestante abbia chiesto di sottoporsi ad esami volti ad accertare l'esistenza di eventuali anomalie del feto, poiché tale richiesta è solo un indizio privo dei caratteri di gravità ed univocità). Nello stesso senso, circa la praticabilità del criterio inferenziale si era già espressa la Suprema Corte, ritenendolo peraltro superfluo nel caso di volontà della gestante di interrompere la gravidanza in caso di diagnosi infausta, manifestata espressamente al momento della richiesta diagnostica (si veda Cass. III, n. 16754/2012). La sentenza da ultimo citata (Cass. III, n. 16754/2012) chiarisce però che il problema della prova che all'interruzione della gravidanza la donna si sarebbe determinata se fosse stata informata può porsi esclusivamente nel caso in cui il convenuto ne contesti l'assunto, anche implicitamente contenuto nell'atto di citazione; laddove, invece, le citate Sezioni Unite del 2015, più che alla mancata contestazione, fanno riferimento, come detto, all'ipotesi che vede il convenuto dare per pacifiche le componenti di fatto essenziali della fattispecie (cioè quelle inerenti al fatto psichico da accertare). Con l'intervento nomofilattico del 2015 (a Sezioni Unite), è stato evitato il consolidarsi di un conflitto in seno alla giurisprudenza di legittimità in merito al riparto dell'onere probatorio, in ragione di un precedente del 2010, per il quale, ai fini dell'accertamento del nesso di causalità tra l'omessa rilevazione e comunicazione della malformazione del feto e il mancato esercizio, da parte della madre, della facoltà di ricorrere all'interruzione volontaria della gravidanza, è sufficiente che la donna alleghi che si sarebbe avvalsa di quella facoltà se fosse stata informata della grave malformazione del feto. Nella detta allegazione sarebbe implicita la ricorrenza delle condizioni di legge per farvi ricorso, tra le quali (dopo il novantesimo giorno di gestazione) vi è il pericolo per la salute fisica o psichica derivante dal trauma connesso all'acquisizione della notizia (art. 6, lett. b, della citata l. n. 194/1978). L'esigenza di prova al riguardo sorgerebbe, per il detto orientamento, solo quando il fatto sia contestato dalla controparte. In tale caso si deve difatti stabilire, in base al criterio (integrabile da dati di comune esperienza evincibili dall'osservazione dei fenomeni sociali) del «più probabile che non» e con valutazione correlata all'epoca della gravidanza, se, a seguito dell'informazione che il medico omise di dare per fatto ad esso imputabile, sarebbe insorto uno stato depressivo suscettibile di essere qualificato come grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna (Cass. III, n. 22837/2010). Sembra potersi invece richiamare quale vero e proprio orientamento (precedente) difforme, rispetto all'intervento nomofilattico delle Sezioni Unite del 2015, l'approdo per il quale, sempre in ipotesi di azione di risarcimento danni da nascita indesiderata, l'inadempimento del medico rileva in quanto impedisce alla donna di compiere la scelta di interrompere la gravidanza. La legge, difatti, in presenza di determinati presupposti, consente alla donna di evitare il pregiudizio che da quella condizione del figlio deriverebbe al proprio stato di salute e rende corrispondente a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza se informata di gravi malformazioni del feto. In applicazione del principio la Suprema Corte, come detto in epoca antecedente all'intervento chiarificatore del 2015, ha confermato la sentenza di merito che aveva affermato la responsabilità del medico senza specifica discussione sul nesso di causalità, non essendo emersi in causa argomenti – quali fattori ambientali, culturali, di storia personale – idonei a dimostrare in modo certo che, pur informata, la donna avrebbe accettato la continuazione della gravidanza, ed essendo anzi desumibile dalla richiesta al medico di esami volti a conoscere l'esistenza di anomalie o malformazioni del feto un comportamento orientato, in caso positivo, a rifiutare la prosecuzione della gravidanza (ex plurimis, per l'orientamento non condiviso dalle citate Sezioni Unite di cui innanzi: Cass. III, n. 22837/2010, cit., per la quale sarebbe sufficiente, per la prova del nesso causale, che la donna alleghi che se fosse stata informata delle malformazioni del feto avrebbe interrotto la gravidanza; Cass. III, n. 13/2010, cit.; Cass. III, n. 6735/2002). Il rilievo della possibilità di vita autonoma del feto Sempre in tema di causalità e riparto dell'onere probatorio occorre verificare come essi si atteggino nel caso di possibilità di vita autonoma del feto, cioè nel caso si versi nell'ipotesi di cui al combinato disposto di cui agli artt. 6 e 7 comma 3 della citata l. 22 maggio 1978, n. 194. L'articolo da ultimo citato, difatti, per l'ipotesi che sussista «possibilità di vita autonoma del feto», limita la possibilità di interrompere la gravidanza al solo caso che la sua prosecuzione o il parto siano per comportare un grave pericolo di vita della donna (quindi non limitato alla salute, fisica o psichica). Ci si deve chiedere quindi, in primo luogo, a quale situazione la norma si riferisca con l'espressione appena riportata. Possibilità di vita autonoma del feto è cosa diversa dalla possibilità/capacità per il concepito dopo la nascita, quindi in ipotesi di gravidanza ultimata, di condurre un vista autonoma da un punto di vista fisico e psichico. La situazione alla quale la norma (art. 7 cit.) si riferisce è difatti descritta come essere relativa al feto e non al nascituro (cioè alle di lui condizioni dopo la nascita). Il riferimento è quindi al quel grado di maturità del feto che gli consentirebbe, una volta estratto dal grembo della madre, di mantenersi in vita e di completare il suo processo di formazione anche fuori dall'ambiente materno. Proprio tale processo, difatti, per legge, non può essere messo in pericolo se non quando la continuazione della gravidanza od il parto siano per mettere in grave pericolo la vita della madre, salvo ad affidare al medico di fare anche quanto possibile per salvaguardare la vita del feto. Sicché, stabilire se vi fosse per il feto possibilità di vita autonoma è interrogativo risolvibile avendo riguardo al grado di maturità da lui raggiunto nel momento in cui il medico ha mancato di tenere il comportamento che da lui ci si doveva attendere. In applicazione del principio sono state in particolare ritenute irrilevanti considerazioni fatte a proposito del rapporto tra tipo di anomalie o malformazioni del nascituro e la possibilità che, venuto alla vita, l'individuo conduca una vita autonoma dal punto di vista fisico o psichico. Non potendo trarsi difatti argomento, nel caso di specie, né in generale da considerazioni relative al rapporto statistico tra sindrome di Apert e capacità del feto di portare a compimento il suo processo di formazione in ambiente materno né dalla considerazione dei tratti del caso particolare e quindi del modo in cui il bambino si è venuto sviluppando (Cass. III, n. 13/2010, cit., e Cass. III, n. 6735/2002, cit.). Il successivo passaggio è quello di individuare a chi spetti provare se il feto avesse o no raggiunto lo stadio di formazione capace di consentirgli una vita autonoma. Tale questione può essere affrontata rilevando che la possibilità di vita autonoma del feto, nella specifica fattispecie del diritto della gestante all'interruzione della gravidanza, si configura come un fatto che ne impedisce l'esercizio, pur nel ricorso degli altri elementi richiesti perché esso sorga (che devono, questi ultimi, essere provati dalla donna nei termini di cui innanzi). Ovviamente salve, anche in questo ambito, le ripercussioni in tema di riparto dell'onere probatorio in forza della considerazione in termini extracontrattuali della responsabilità del medico per l'effetto della legge 8 marzo 2017, n. 24 (nei termini già più volte analizzati nei paragrafi precedenti). Nella causa tra la donna che chiede il risarcimento dei danni derivatile dal non aver potuto esercitare il suo diritto ed il medico che sostiene non essere stato il danno effetto del suo inadempimento perché la donna non avrebbe comunque potuto interrompere la gravidanza, alla donna spetta provare i fatti costitutivi del diritto (nei termini innanzi chiariti), ed al medico i fatti idonei ad escluderlo. La regola di semplificazione della fattispecie, che disciplina il riparto dell'onere probatorio tra le parti, vuole difatti che l'attore dia dimostrazione dei fatti che bastano a far sorgere il diritto e non anche dell'assenza di quelli che vi sono d'ostacolo (fatti impeditivi). Ne consegue che non spetta alla donna provare che quando è maturato l'inadempimento del medico il feto non era ancora pervenuto alla condizione della possibilità di vita autonoma, gravando invece sul medico provare il contrario (cioè i fatti impeditivi). È dunque onere del sanitario e/o della struttura sanitaria convenuti dimostrare che, quando le malformazioni del feto avrebbero potuto essere rilevate e comunicate alla gestante, il feto aveva raggiunto un grado di sviluppo tale da assicurarne la possibilità di vita autonoma (Cass. III, n. 6735/2002, cit.). Il danno risarcibile Il problema del danno risarcibile da c.d. nascita indesiderata è quello dell'identificazione dell'eventuale pregiudizio, legato da vincolo causale immediato e diretto al fatto colposo del sanitario (ex artt. 1223 e 2056 c.c.). In particolare occorre verificare se il detto pregiudizio (risarcibile) debba essere limitato allo stesso danno alla salute (fisica o psichica) prefigurato ex ante quale causa permissiva dell'interruzione della gravidanza, restando quindi all'interno della fattispecie di cui all'art. 6 della citata l. 22 maggio 1978, n. 194 ed in considerazione della natura eccezionale della norma o se possa essere esteso a tutti i danni conseguenza riconducibili, in tesi generale, all'ordinaria responsabilità aquiliana e contrattuale (la questione giuridica in esame è stata anche evidenziata da Cass. S.U., n. 25767/2015, cit., che, esplicitamente, ha inteso non prendere posizione in merito in quanto esulante dal theme decidendum). La tesi restrittiva è propugnata da un orientamento di legittimità numericamente minoritario e più risalente. Si argomenta dall'assunto per il quale, nel caso di responsabilità per c.d. nascita indesiderata, il danno risarcibile è solo quello dipendente dal pregiudizio alla salute fisio-psichica della donna, specificamente tutelata dalla predetta l. n. 194 del 1978, e non quello più genericamente dipendente da ogni pregiudizievole conseguenza patrimoniale dell'inadempimento del sanitario, tra i quali il costo della nascita del figlio indesiderato o del suo allevamento. Tali ultime tipologie di danni, in particolare, non sono considerate un fatto ingiustamente dannoso neppure in presenza di precarie condizioni economiche della madre, le quali sono assunte come condizione giustificatrice della interruzione della gravidanza solo per la loro possibile influenza sulle condizioni fisio-psichiche della donna (Cass. III, n. 6464/1994). Quello di cui innanzi è il primo caso di nascita indesiderata esaminato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. III, n. 6464/1994). In quella circostanza, peraltro, la donna si era sottoposta ad un intervento di interruzione volontaria, che non era riuscito, ma del cui esito non era stata informata. Ne era seguita la nascita di un figlio sano ed ambedue i genitori avevano domandato d'essere risarciti del danno patrimoniale costituito dall'essersi trovati a dovere affrontare i costi del mantenimento e della educazione del figlio prima di quando se l'erano prefisso. Nella specie, il sanitario di un ospedale non aveva informato la paziente, sottoposta ad intervento abortivo ai sensi della l. n. 194/1978, del possibile esito negativo dell'intervento e della conseguente necessità di un controllo istologico per l'accertamento di tale esito, determinando il disinteresse della paziente che solo quando l'intervento abortivo non poteva essere più ripetuto si era accorta dell'insuccesso, trovandosi nella necessità di portare a termine la gravidanza indesiderata. La Suprema Corte considerò che ad essere rimasto frustrato era stato il diritto della donna ad interrompere la gravidanza e che, siccome l'interesse tutelato dalle norme disciplinanti la materia è quello della salute della donna, a poter essere risarcito era solo il danno costituito dalla menomazione che la nascita del figlio poteva aver procurato alla salute della madre. A provocare il detto danno, peraltro, avrebbe eventualmente potuto concorrere anche il disagio d'essersi la donna trovata a mancare delle risorse economiche per fare fronte all'anticipata nascita del figlio. Così argomentando, il Giudice di legittimità considerò che il risarcimento avrebbe dovuto essere commisurato non all'anticipato costo di mantenimento del figlio ma, se mai, al costo necessario per rimuovere le cause del danno alla salute ed a risarcire i danni alla salute concretamente subiti dalla madre. Nella circostanza di cui innanzi la Suprema Corte vagliò anche i rapporti tra dovere/obbligo di informazione (ritenendolo rilevare ai fini della diligenza), responsabilità per nascita indesiderata e limitazione di responsabilità per le ipotesi di risoluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà. Considerando operante il 2236 c.c. solo con riferimento alle ipotesi di imperizia e non di negligenza e di imprudenza, la Suprema Corte ritenne il medico responsabile dei danni conseguenti alla violazione, per negligenza, del dovere di informazione del paziente sui possibili esiti dell'intervento chirurgico, su di lui gravante in ogni caso ed a fortiori nella specie (in quanto esplicitamente sancito dall'art. 14 della l. 22 maggio 1978, n. 194. La giurisprudenza di legittimità inizia a prendere le distanze da tale orientamento già nel 1998, con il secondo caso portato alla sua attenzione. In tale circostanza la Suprema Corte avvertì difatti che il danno alla salute della donna, che deve inserirsi in un processo patologico, delimita il diritto all'aborto, secondo la citata l. n. 194, ma non la responsabilità contrattuale del sanitario. La considerazione di cui innanzi venne fatta nell'esaminare il diritto della donna al risarcimento dei danni derivati dalla nascita di un figlio malformato e valse ad escludere che l'interesse tutelato dalle norme sulla interruzione della gravidanza valesse a selezionare i danni risarcibili, restringendoli a quelli relativi alla salute fisica e psichica della donna. Passata poi a pronunciarsi sul ricorso del marito della donna, che aveva fatto valere un diritto al risarcimento del danno alla propria salute, come conseguenza di quello subito dalla donna, la Suprema Corte riconobbe che un tale diritto era configurabile e ne individuò il contenuto nel danno riflesso indotto dal primo, ingiusto perché inerente alla lesione di un diritto proprio. Il danno, difatti, va considerato causato dall'illecito (ai sensi dell'art. 1223 c.c.) quando, pur non essendo conseguenza diretta ed immediata di quest'ultimo, rientra pur sempre nel novero delle conseguenze normali ed ordinarie del fatto. Con la conseguenza, per la sentenza in esame, che, qualora l'imperizia del medico impedisca alla donna di esercitare il proprio diritto all'aborto, e ciò determini un danno alla salute della madre, è ipotizzabile che da tale danno derivi un danno (c.d. «riflesso» o «da rimbalzo») alla salute anche del marito che, però va rigorosamente accertato in concreto, senza possibilità per il giudice di merito di ricorrere al fatto notorio. La Suprema Corte ammette che il danno alla salute di un coniuge possa riflettersi sul danno alla salute dell'altro coniuge, secondo il principio della c.d. regolarità causale, quale effetto normale in base all'id quod plerumque accidit, ritenendo risarcibili anche i c.d. «danni riflessi o da rimbalzo» se conseguenza immediata e diretta ex articolo 1223 c.c. Il problema di un allargamento a dismisura dei risarcimenti non deve essere risolto, sempre per la Cassazione, negando tout court il risarcimento dei suddetti danni ma esigendo una rigorosa prova della loro esistenza, «evitando di rifugiarsi dietro il «notorio», ma anche alla stregua di un corretto accertamento del nesso di causalità (Cass. III, n. 12195/1998). Il terzo caso di c.d. danno da nascita indesiderata approdato in Corte di Cassazione (nel 1999) non comportò disamina dell'aspetto inerente il danno risarcibile arrestandosi alla ritenuta insussistenza della prova della possibilità per la donna di interrompere la gravidanza (il riferimento è a Cass. III, n. 2793/1999, in Giur. it., 2000, 1, 43, con commento di Baratto, Il risarcimento del danno per il mancato esercizio del diritto all'interruzione della gravidanza: un problema aperto). Il definitivo mutamento di orientamento, in merito al danno risarcibile, si ha, con il quarto approdo in legittimità di caso di c.d. nascita indesiderata, vagliato da Cass. III, n. 6735/2002, cit., che muove delle seguenti argomentazioni. La responsabilità del medico (ed in ipotesi anche della struttura sanitaria) deriva dall'inadempimento ad una obbligazione di natura contrattuale, consistente nel rilevare le condizioni del feto e formulare la corrispondente diagnosi, impiegando in ciò diligenza e perizia richieste. Esso, difatti, ex art. 1218 c.c. espone il medico a responsabilità per i danni che ne derivano. Sicché, non sono danni (risarcibili) quelli che derivano dall'inadempimento del medico ma che il suo adempimento non avrebbe evitato; una nascita che la madre non avrebbe potuto scegliere di rifiutare; una nascita che non avrebbe in concreto rifiutato; la presenza nel figlio di menomazioni o malformazioni al cui consolidarsi non avrebbe potuto porsi riparo durante la gravidanza in modo che il figlio nascesse sano. La possibilità, per la madre, di esercitare il suo diritto ad una procreazione cosciente e responsabile, interrompendo la gravidanza, assume dunque rilievo nella sede del giudizio sul nesso causale e non quale criterio di selezione dei danni risarcibili (non almeno come criterio di selezione tra tipi di danno). In applicazione del principio, la Suprema Corte ha conseguentemente confermato la sentenza di merito che aveva riconosciuto il risarcimento con riferimento a più tipi di danno (più componenti del danno risarcibile), peraltro anche al padre del nato, ancorché, differentemente dal precedente citato arresto del 1998, non più in termini di danni riflessi (o da rimbalzo), cioè derivanti dai danni cagionati alla donna, ma danni diretti. L'inadempimento del sanitario si presenta tale anche nei confronti del padre perché quest'ultimo è soggetto protetto dal contratto concluso con la donna ed in confronto del quale la prestazione del medico è dovuta. Una prima componente di danno sarebbe di natura patrimoniale. Danno emergente, per le spese mediche già sopportate nonché future ma anche per le necessità di costante cura del minore totalmente invalido, a sua volta destinata a provocare spese. Lucro cessante, essendosi la necessità di accudire il figlio totalmente invalido tradotta in una limitazione del tempo da dedicare all'attività professionale ed alla vita di relazione (con conseguente diminuzione di reddito). Altra componente di danno atterrebbe agli effetti non patrimoniali della diminuita vita di relazione, mentre una terza componente sarebbe quella provocata dal trauma subito per essersi i genitori trovati senza alcuna preparazione psicologica di fronte alla realtà di un figlio menomato. Dall'evoluzione diacronica di cui innanzi potrebbe sostenersi l'attuale risoluzione del contrasto interno alle singole sezioni della Suprema Corte. Ciò sembra peraltro evidenziato anche dalle recenti riproposizioni dell'orientamento non restrittivo con affermazione del principio per il quale, sempre in tema di nascita indesiderata, trattandosi di inadempimento contrattuale, il danno al cui risarcimento il debitore è tenuto non è solo quello alla salute fisio-psichica della donna (specificamente tutelata dalla citata l. n. 194 del 1978) ma anche quello più genericamente dipendente da ogni pregiudizievole conseguenza patrimoniale dell'inadempimento del sanitario nonché del danno biologico in tutte le sue forme, sempre che si tratti di conseguenza diretta ed immediata dell'inadempimento in termini di causalità adeguata. Rientrandovi quindi il danno consistito nelle ulteriori spese di mantenimento della persona nata con malformazioni, pari al differenziale tra la spesa necessaria per il mantenimento di un figlio sano e la spesa per il mantenimento di un figlio affetto da gravi patologie (ex plurimis: Cass. III, n. 13/2010, cit.; Cass. III, n. 14488/2004). Dovere/Obbligo di informazione e c.d. danno da nascita indesiderata Come già evidenziato nella precedente specifica trattazione del c.d. danno da mancato consenso informato, il dovere/obbligo di informazione in merito al trattamento sanitario e la correlativa tutela del diritto all'autodeterminazione del paziente assumono mosse particolari proprio nell'ipotesi di danni derivanti da mancata diagnosi di malformazione del feto. Il medico-chirurgo viene difatti meno all'obbligo a suo carico in ordine all'ottenimento del cosiddetto consenso informato ove non fornisca al paziente, in modo completo ed esaustivo, tutte le informazioni scientificamente possibili inerenti il trattamento sanitario che intende eseguire e, soprattutto, sul bilancio rischi/vantaggi dello stesso, a fortiori ove ricorrano fattori di pericolo che sconsiglino l'intervento, neppure cogentemente necessario. L'obbligo di informare la gestante degli esami diagnostici effettuabili preventivamente per conoscere patologie fetali, idonee ad orientare la scelta tra l'interruzione o la prosecuzione della gravidanza, assume autonomo rilievo, nel rapporto (contrattuale) con la struttura sanitaria e (contrattuale o extracontrattuale) con il medico, rispetto a quello relativo alla verifica degli esiti di esami già effettuati ed alla valutazione della necessità di approfondimenti. Sicché, la sua violazione implica responsabilità della struttura e del professionista fondate sulla lesione di un diritto all'autodeterminazione a scelte non solo terapeutiche ma anche procreative. Spettando dunque al sanitario, a fronte della mera allegazione dell'inadempimento di siffatto obbligo di informazione, dare la prova di averlo, invece, adempiuto (salve differenti conclusioni in tema di riparto dell'onere probatorio, deve aggiungersi, ove operasse la sola responsabilità extracontrattuale). In applicazione del principio, Cass. III, n. 24220/2015, con riferimento al caso in cui i genitori di una bimba nata affetta da «sindrome di Down» avevano manifestato al proprio medico di fiducia, nel corso della gravidanza, il rifiuto ad accettare la nascita di un figlio affetto da gravi patologie, ha annullato la sentenza impugnata, rinviando al giudice di merito la verifica in ordine al se la gestante fosse stata correttamente informata del possibile ricorso all'amniocentesi o all'esame dei villi coriali, all'esito della ecografia morfologica fetale. La sentenza in esame ha chiarito altresì che il sanitario che riscontri una normalità morfologica del feto anche sulla base di esami strumentali, i quali tuttavia non ne consentano, senza sua colpa, la visualizzazione nella sua interezza, ha l'obbligo d'informare la paziente della possibilità di ricorrere ad un centro di più elevato livello di specializzazione, nella prospettiva della determinazione della gestante ad interrompere la gravidanza, ancorché gli accertamenti diagnostici più completi siano invasivi e implicanti maggiori fattori di rischio per il feto. Parimenti, per Cass. III, n. 30727/2019, il sanitario che riscontri una normalità morfologica del feto anche sulla base di esami strumentali, i quali tuttavia non ne consentano la visualizzazione nella sua interezza, ha l'obbligo, secondo un'adeguata valutazione della diligenza richiestagli, d'informare la paziente della possibilità di ricorrere ad un centro di più elevato livello di specializzazione, nella prospettiva della determinazione della gestante ad interrompere la gravidanza, ricorrendone i presupposti. In applicazione del principio la Suprema Corte, con riferimento alla domanda risarcitoria formulata dai genitori di un bimbo nato affetto da grave sindrome "facio-auricolo-vertebrale" per mancata diagnosi di malformazione e conseguente trauma psichico patito a causa della nascita di un figlio affetto da gravi patologie, ha annullato la sentenza impugnata, rinviando al giudice di merito la verifica, secondo un'adeguata valutazione della diligenza richiesta al sanitario, se la presenza di fattori limitanti l'indagine quali la "posizione di vertice" e il "dorso orientato a destra" che avevano impedito l'esame del profilo facciale, fossero tali da imporre accertamenti ulteriori e non, viceversa, tali da consentire un referto di normoconformazione fetale. Il ginecologo di fiducia della gestante che riscontri, tramite esame specialistico, un'alterazione cromosomica o altre anomalie del feto, non può quindi limitarsi a comunicare tale dato alla propria paziente, indirizzandola al laboratorio di analisi per ulteriori approfondimenti, atteso che gli obblighi di informazione a suo carico devono estendersi a tutti gli elementi idonei a consentire a quest'ultima una scelta informata e consapevole, sia nel senso della interruzione della gravidanza, che della sua prosecuzione, non sottacendo, in tal caso, l'illustrazione delle problematicità da affrontare. A loro volta, il laboratorio di analisi ed il genetista non possono limitarsi alla verifica della esistenza dell'anomalia, reindirizzando la paziente al ginecologo di fiducia ma, a specifica richiesta della gestante, devono soddisfare le sue richieste di informazione anche in relazione alle più probabili conseguenze delle anomalie riscontrate (Cass. III, n. 5004/2017). Particolarmente caratterizzato è nella specie il rapporto tra obbligo di informazione ed obbligo di adeguatezza organizzativa gravante sulla struttura sanitaria. Il sanitario che formuli una diagnosi di normalità morfologica del feto anche sulla base di esami strumentali che non ne hanno consentito, senza sua colpa, la visualizzazione nella sua interezza, ha l'obbligo d'informare la paziente della possibilità di ricorrere ad un centro di più elevato livello di specializzazione, in vista dell'esercizio del diritto della gestante di interrompere la gravidanza, ricorrendone i presupposti (ex plurimis, Cass. III, n. 15386/2011, la quale precisa altresì che la prova, pur se incombente sulla parte attrice, lamentandosi la mancata informazione da parte del medico, non può che essere di natura presuntiva quanto al grave pericolo per la salute psichica della donna che costituisce la condizione richiesta dalla legge per l'interruzione di gravidanza). Questo principio è confermato anche da recentissime sentenze di legittimità ma con la precisazione che esso non impone «tout court» un obbligo in capo alla struttura sanitaria ed al medico (che abbia correttamente operato) di indirizzare la paziente verso un centro ecografico di più elevata specializzazione nella diagnosi prenatale. Il detto obbligo difatti nasce (in capo alla struttura ed al medico in essa operante) solo ove le apparecchiature tecniche non siano adeguate allo scopo, in ipotesi perché non tali da fornire una risposta corretta e completa alla stregua di apparecchiature presenti in altre strutture sanitaria (ex plurimis, Cass. III, n. 4540/2016,cit.) L'obbligo gravante sulla struttura sanitaria e sul medico in essa operante, che abbia concretamente effettuato la diagnosi, di informare la paziente di poter ricorrere a centri di più elevata specializzazione sorge, anzitutto, in ragione dell'esistenza di un presupposto inadempimento, addebitabile unicamente alla struttura sanitaria, di aver assunto la prestazione diagnostica pur non disponendo di attrezzature all'uopo adeguate. Tale condotta è suscettibile di ingenerare nella paziente l'affidamento che il risultato diagnostico ottenuto (di normalità fetale) sia quello ragionevolmente conseguibile in modo definitivo. Trattasi di inadempimento legato a deficit organizzativi della struttura sanitaria, la quale è obbligata, in forza del contratto di spedalità, a mettere a disposizione non solo il personale sanitario ma anche le necessarie attrezzature idonee ed efficienti, della cui inadeguatezza essa risponde ex art. 1218 c.c. in modo esclusivo (ex plurimis: Cass. III, n. 4540/2016, cit.; Cass. S.U., n. 9556/2002, cit.). Ne consegue, dunque, che da siffatta specifica responsabilità ne è esonerato il medico che, diligentemente ed in modo perito secondo le legis artis, sia intervenuto sul paziente (ex plurimis: Cass. III, n. 4540/2016, cit.; Cass. III, n. 10743/2009, cit.). È quindi solo l'inadempimento della struttura rispetto all'obbligazione di cui innanzi che genera l'ulteriore obbligo informativo, che si pone a protezione del paziente e che grava, quest'ultimo, non solo sulla struttura sanitaria ma anche sul medico operane. Il sanitario, ancorché esente da colpa professionale nella fase esecutiva del suo intervento, è difatti comunque tenuto ad avvisare il paziente della inadeguatezza degli strumenti diagnostici, così da non determinare l'insorgere di un incolpevole affidamento sulla sicura bontà dell'esame strumentale (ex plurimis, Cass. III, n. 4540/2016, cit.; più in generale, per la responsabilità del primario ospedaliero dell'inadeguatezza della struttura sanitaria da lui diretta, si veda Cass. III, n. 22338/2014, cit.). In definitiva, quindi, l'obbligo protettivo di informazione di cui innanzi (indirizzare la paziente verso strutture di più elevata specializzazione), nasce, in capo tanto alla struttura quanto al medico in essa operante, in uno con l'inadempimento, da parte della struttura sanitaria, dell'obbligo di adeguatezza organizzativa in rapporto all'assunzione della prestazione di spedalità in favore del paziente nonostante il deficit organizzativo (Cass. III, n. 4540/2016, cit., con riferimento ad una ipotesi di visualizzazione parziale del feto). Omessa prescrizione di amniocentesi e conseguenti «danno da sorpresa» e da «perdita di chance» Con una pronuncia recentissima (del 2017) la Suprema Corte evidenzia che l'inadempimento del medico, consistente non tanto nell'omessa informazione circa una malformazione del feto quanto l'omessa prescrizione di accertamenti che avrebbero potuto evidenziarla, può essere considerato fonte di responsabilità anche sotto i profili della «sorpresa» per la donna in merito alla condizione patologica del feto e della perdita di chance di conoscere lo stato della gravidanza. Tale ultima tipologia di danno, da intendersi in termini di danno emergente, è ontologicamente differente rispetto al danno da nascita indesiderata, con quanto ne consegue in merito agli oneri probatori già oggetto di specifica trattazione. Rileva altresì l'intervento nomofilattico in esame anche in merito all'irrilevanza sotto il profilo causale, quale fattore sopravvenuto interruttivo del nesso eziologico, della successiva condotta della gestante, consapevolmente non sottopostasi ad amniocentesi pochi mesi dopo l'inadempimento del medico (in quanto facente ragionevole affidamento sul di lui corretto adempimento). Per Cass. III, n. 243/2017, in particolare, qualora risulti che un medico specialista in ginecologia, cui una gestante si sia rivolta per accertamenti sulle condizioni della gravidanza e del feto, non abbia adempiuto correttamente la prestazione, per non avere prescritto l'amniocentesi, ed all'esito della gravidanza il feto nasca con una sindrome che quell'accertamento avrebbe potuto svelare, la mera circostanza che, due mesi dopo quella prestazione, la gestante abbia rifiutato di sottoporsi all'amniocentesi in occasione di altri controlli, non può dal giudice di merito essere considerata autonomamente come causa efficiente esclusiva, sopravvenuta all'inadempimento, riguardo al danno alla propria salute psico-fisica che la gestante lamenti per aver avuto la «sorpresa» della condizione patologica del figlio all'esito della gravidanza. Occorre difatti accertare in concreto che sul rifiuto non abbia influito il convincimento ingenerato nella gestante dalla prestazione erroneamente eseguita. La circostanza di cui innanzi non elide altresì l'efficacia causale dell'inadempimento quanto alla perdita di chance di conoscere lo stato della gravidanza fin dal momento in cui si è verificato e, conseguentemente la perdita di quella chance deve essere considerata una parte di quel danno ascrivibile all'inadempimento del medico. Legittimazione attiva (sostanziale) Nella giurisprudenza di legittimità è invece sorto un conflitto in merito all'individuazione dei soggetti legittimati attivi (sostanziali) con riferimento all'azione di risarcimento danni per c.d. «nascita indesiderata» (nei confronti del medico e/o della struttura sanitaria), con particolare riferimento allo stesso soggetto nato. La risoluzione del quesito di diritto potrebbe comportare anche una possibile rivisitazione dell'approdo di legittimità in merito, se non alla legittimazione in capo al padre ed ai fratelli del soggetto nato, quantomeno in merito alla struttura dell'illecito nei confronti dei parenti ed ai connessi oneri probatori. Un primo orientamento, numericamente maggioritario, esclude la legittimazione (sostanziale) del soggetto nato con riferimento all'azione di risarcimento danni da nascita indesiderata nei confronti del medico e della struttura sanitaria, ritenendo inesistente un diritto a non nascere se non sano (si vedano: Cass. III, n. 16123/2006, e Cass. III, n. 14488/2004, cit.). Con particolare riferimento ai rapporti tra tale danno ed il diverso danno evento causato da malformazioni del feto attribuibili a condotta colposa del medico (nella specie per mancato consenso informato), la Suprema Corte, con pronuncia che si inserisce nel filone giurisprudenziale in esame, ha in particolare precisato quanto segue. Nel caso in cui ad una gestante siano stati somministrati, senza adeguata informazione, farmaci che abbiano provocato malformazioni al concepito, la violazione dell'obbligo d'informazione da parte dei sanitari dà luogo al risarcimento del danno in favore sia della gestante-madre che del concepito, una volta che quest'ultimo sia venuto ad esistenza, ma solo in relazione all'inosservanza del principio del c.d. consenso informato. Per converso, non può ravvisarsi a carico dei sanitari una responsabilità nei confronti del concepito perché la madre non è stata posta in condizione di esercitare il diritto all'interruzione volontaria della gravidanza, non essendo configurabile nel nostro ordinamento un diritto «a non nascere se non sano». Le norme che disciplinano l'interruzione della gravidanza la ammettono difatti nei soli casi in cui la prosecuzione della stessa o il parto comportino un grave pericolo per la salute o la vita della donna, legittimando pertanto la sola madre ad agire per il risarcimento dei danni (Cass. III, n. 10741/2009). Per il contrapposto orientamento, invece, il concepito, ancorché privo di soggettività giuridica fino al momento della nascita, una volta venuto ad esistenza, ha diritto ad essere risarcito da parte del sanitario con riguardo al danno consistente nell'essere nato non sano e rappresentato dell'interesse ad alleviare la propria condizione di vita impeditiva di una libera estrinsecazione della personalità (ex artt. 2, 3, 29, 30 e 32 Cost.). A nulla rilevando, quindi, in senso contrario né che la patologia fosse congenita né che la madre, ove fosse stata informata della malformazione, avrebbe verosimilmente scelto di abortire. L'evento di danno sarebbe invece costituito dall'individuazione di sintesi della «nascita malformata», intesa come condizione dinamica dell'esistenza riferita ad un soggetto di diritto attualmente esistente. Tale evento sarebbe infine riconducibile, secondo un giudizio prognostico ex post, all'omissione del sanitario, nel caso in cui, sotto il profilo causale, una condotta diligente ed incolpevole avrebbe consentito alla donna di esercitare il suo diritto all'aborto (cfr., Cass. III, n. 16754/2012, nella specie il medico aveva omesso di segnalare alla gestante l'esistenza di più efficaci test diagnostici prenatali rispetto a quello in concreto prescelto, impedendole così di accertare l'esistenza d'una una malformazione congenita del concepito). Argomentando nei termini di cui innanzi la Suprema Corte (Cass. III, n. 16754/2012, cit.), per la prima volta, ammette che una persona nata con malformazioni congenite, quindi non dovute a condotta attiva od omissiva del sanitario, possa agire per il risarcimento del danno per il fatto stesso di essere nato, non attribuendo anche al concepito soggettività giuridica (tanto da riconoscerli capacità giuridica prima della nascita) ma evidenziando che la diversità delle due fattispecie: la condizione di vita che avrebbe avuto il concepito se fosse nato sano e quella nella quale lo stesso versa in quanto nato non sano. Il conflitto è stato risolto, in senso negativo, da Cass. S.U., n. 2576/2015, cit., per la quale il nato disabile (nella specie, soggetto affetto da «sindrome di Down») non può agire per il risarcimento del danno, neppure sotto il profilo dell'interesse ad avere un ambiente familiare preparato ad accoglierlo, giacché l'ordinamento non conosce il «diritto a non nascere se non sano», né la vita del bambino può integrare un danno-conseguenza dell'illecito omissivo del medico. Le Sezioni Unite, che, in parte, riprendono le argomentazioni del primo orientamento, chiarendone la portata ed innovandone anche l'iter logico-giuridico, premettono che scoglio insuperabile per il riconoscimento della legittimazione ad agire (sostanziale) del soggetto nato non è rappresentato dall'essere il diritto che si intende azionare «adespota» (non potendo reclamare un diritto chi, alla data della sua genesi, non era ancora esistente). Il diritto al risarcimento, originato da fatto anteriore alla nascita, ben può divenire attuale e, quindi, azionabile, dopo la nascita del soggetto, potendo essere destinatari di tutela anche senza essere soggetti di diritti e di capacità giuridica, ai sensi dell'art. 1 c.c. (ipotesi di c.d. «danni futuri»). Per converso, confutando la tesi opposta, il danno-conseguenza, consacrato nell'art. 1223 c.c., con espressione empirica, “nell'avere di meno” a seguito dell'illecito, nel caso di mancata diagnosi di malformazione del feto risulterebbe legato alla stessa vita del bambino, così come l'assenza di danno alla di lui morte. Sicché, nella comparazione tra le due situazioni alternative, prima e dopo l'illecito, il secondo termine di paragone è la non vita, da interruzione della gravidanza, che, a sua volta, non può essere ritenuto un bene della vita, comportando il venir meno, in radice, del concetto di danno ingiusto (ex art. 2043 c.c.). Non riconoscendo, l'ordinamento giuridico, il diritto a non nascere se non sano, non rileva neanche la lesione dell'interesse ad avere un ambiente familiare preparato ad accoglierlo, non potendo, peraltro, la vita del bambino integrare un danno-conseguenza dell'illecito omissivo del sanitario. All'argomentazione di cui innanzi, la Suprema Corte aggiunge l'impossibilità di invocare il diritto di autodeterminazione della madre, leso dalla mancata informazione sanitaria, ai fini di una propagazione intersoggettiva dell'effetto pregiudizievole. Diversamente opinando, difatti, si finirebbe con il pretendere di estendere al nascituro una facoltà che è concessa dalla legge esclusivamente alla gestante, peraltro in presenza delle rigorose condizioni già innanzi evidenziate, posta in relazione di bilanciamento con un diritto della donna, inerente la sua salute personale nonché già esistente. Parimenti non conducente è poi ritenuta dal Supremo consesso la tesi che vorrebbe ricondurre il credito risarcitorio ai c.d. doveri di protezione dei quali sarebbe beneficiario il nascituro, in applicazione della teoria (elaborata dalla dottrina tedesca) che riconosce a parenti o conviventi (anche per ragioni di lavoro) a contatto con la controparte contrattuale, una tutela più intensa, di natura contrattuale, rispetto a quella propria della generalità dei terzi, che possono invece valersi della sola azione aquiliana. Il richiamo ai c.d. doveri di protezione, difatti, potrebbe giustificare la titolarità del credito risarcitorio ex contractu da parte del nato affetto da anomalie cagionate direttamente dal sanitario ma incontra sempre il limite dell'inesistenza di un danno-conseguenza per effetto della mancata interruzione della gravidanza. Sicché, non è possibile equiparare quoad effectum l'errore medico che non abbia evitato la nascita indesiderata, a causa di gravi malformazioni del feto, all'errore medico che tale malformazione abbia direttamente cagionato (Cass. S.U., n. 25767/2015, cit., la quale evidenzia altresì che, la teorizzazione del c.d. diritto a non nascere se malati, con conseguente responsabilità del medico verso il nato, implicherebbe la possibilità di riconoscere un'analoga responsabilità della stessa madre verso il nato, che nelle circostanze di cui all'art. 6 della l. 22 maggio 1978, n. 194, benché correttamente informata, abbia portato a termine la gravidanza, in quanto tale diritto a non nascere comporterebbe, quale simmetrico termine del rapporto giuridico, l'obbligo della madre di abortire). Come innanzi anticipato, le argomentazioni poste dalle citate Sezioni Unite alla base del mancato riconoscimento di legittimazione attiva (sostanziale) in capo al nato ad agire per il risarcimento danni da nascita indesiderata potrebbero implicare un rischio di rivisitazione se non dell'approdo di legittimità in merito alla legittimazione in capo al padre ed ai fratelli del soggetto nato, ritenuta allo stato sussistente, perlomeno in merito al relativo regime probatorio. In merito, difatti, allo stato, la giurisprudenza di legittimità, muovendo dalla teoria del contratto con effetti protettivi in favore di terzo, ritiene che il risarcimento del danno c.d. da nascita indesiderata, scaturente dall'errore del medico che, non rilevando malformazioni congenite del concepito, impedisca alla madre l'esercizio del diritto di interruzione della gravidanza, spetti sia ai genitori del soggetto nato malformato, sia ai suoi fratelli (in termini generali, nel senso che la responsabilità da contatto sociale caratterizza la categoria più ampia dei c.d. contratti di protezione, nella quale si annoverano quelli conclusi nel settore sanitario, e consente di riconoscere tutela oltre cha al paziente anche a soggetti terzi, ai quali si estendono gli effetti protettivi del contratto/contatto, si veda Cass. S.U., n. 577/2008, cit.). È in particolare costante l'orientamento per il quale, in tema di responsabilità del medico per omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata, il risarcimento dei danni che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento del ginecologo all'obbligazione di natura contrattuale gravante su di lui spetta non solo alla madre ma anche al padre, atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l'ordinamento, si incentrano sul fatto della procreazione (desumibili sia dalla citata l. n. 194 del 1978 sia dalla Costituzione – artt. 29 e 30 Cost. – sia dagli artt. 143, 147, 261 e 279 c.c.). Non rileva, in senso contrario, che sia consentito solo alla madre (e non al padre) la scelta in ordine all'interruzione della gravidanza, atteso che, sottratta alla madre la possibilità di scegliere a causa dell'inesatta prestazione del medico, agli effetti negativi del comportamento di quest'ultimo non può ritenersi estraneo il padre, che deve perciò ritenersi tra i soggetti «protetti» dal contratto col medico e quindi tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta può qualificarsi come inadempimento, con tutte le relative conseguenze sul piano risarcitorio (ex plurimis: Cass. III, n. 2354/2010; Cass. III, n. 13/2010, cit.; Cass. III, n. 20320/2005; Cass. III, n. 14488/2004, cit.; per la sentenza che ha inaugurato l'orientamento in esame, con particolare riferimento alla legittimazione attiva dei fratelli del nato, oltre che del padre, con riferimento ai danni da nascita indesiderata, Cass. III, n. 6735/2002, cit.; per la prima sentenza che ha considerato soggetto legittimato sostanziale anche il padre, ancorché per far valere danni riflessi o sa rimbalzo rispetto a quelli subiti dalla madre, Cass. III, n. 12195/1998, cit.). La tesi di cui innanzi, fondata sugli effetti protettivi nei confronti di terzi, è dalla giurisprudenza estesa anche ai fratelli del nato. La Suprema Corte difatti precisa che il risarcimento del danno c.d. da nascita indesiderata, scaturente dall'errore del medico che, non rilevando malformazioni congenite del concepito, impedisca alla madre l'esercizio del diritto di interruzione della gravidanza, spetta non solo ai genitori del soggetto nato malformato ma anche ai suoi fratelli, in ragione delle minori cure che, dopo la nascita del fratello, verosimilmente riceveranno dai genitori invece maggiormente impegnati ad accudire il figlio malato (Cass. III, n. 16754/2012, cit.). La tesi estensiva di cui innanzi che, come evidenziato, si fonda (non più sulla teoria dei «danni riflessi» o «da rimbalzo» bensì) sulla teoria degli effetti protettivi del contratto in favore di terzi, in ragione di considerazioni che si rinvengono nella citata Cass. S.U., n. 25767/2015, potrebbe essere oggetto di ulteriori valutazioni per saggiarne la solidità argomentativa, in ordine ai presupposti oggettivi e soggettivi. Fermo restando però che, per i detti soggetti, differentemente che per il nato, si potrebbe comunque configurare un danno conseguenza effettivamente apprezzabile mediante la comparazione tra due situazioni soggettive omogenee quali: la qualità della vita prima e dopo la nascita del bambino non sano. Sotto il primo profilo (quello oggettivo) occorrerebbe verificare se sia o non sia necessario che i detti familiari (il padre ed i fratelli del nato), che nessuna voce in capitolo hanno in ordine alla scelta abortiva, possano godere, di fatto, di un trattamento probatorio perfino più favorevole rispetto a quello relativo alla madre, perché esenti dall'onere di provare lo stesso pericolo per la propria salute contemplato dall'art. 6 della l. 22 maggio 1978, n. 194. Con riferimento ai presupposti soggettivi, occorre evidenziare che i detti parenti non sarebbero neanche onerati dell'omologa prova della loro condivisione dell'opzione abortiva (Cass. S.U., n. 25767/2015, cit., evidenzia le perplessità di cui innanzi ma esplicitamente non procedere ad una loro disamina approfondita in quanto estranea al thema decidendum, nella specie involgente la legittimazione attiva sostanziale del soggetto nato). La (diversa) responsabilità per malformazioni del feto provocate dal medico ed il diritto a nascere sanoFattispecie differente dalla c.d. nascita indesiderata è quella che vede la condotta colposa del medico (commissiva o omissiva) cagionare malformazioni del feto. In tale ipotesi non sussistono perplessità nel riconoscere legittimazione attiva (sostanziale) in capo non solo alla donna, all'altro genitore ed ai fratelli del soggetto nato ma anche a quest'ultimo. Non costituisce scoglio insuperabile, per il riconoscimento della legittimazione ad agire (sostanziale) del soggetto nato, l'essere il diritto che si intende azionare «adespota» (non potendo reclamare un diritto chi, alla data della sua genesi, non era ancora esistente). Il diritto al risarcimento, originato da fatto anteriore alla nascita, ben può difatti divenire attuale e, quindi, azionabile, dopo la nascita del soggetto, potendo essere destinatari di tutela anche senza essere soggetti di diritti e privi di capacità giuridica, ai sensi dell'art. 1 c.c. (ipotesi di c.d. «danni futuri»). Il concepito, pur non avendo una piena capacità giuridica, è comunque un soggetto di diritto, perché titolare di molteplici interessi personali riconosciuti dall'ordinamento sia nazionale che sovranazionale, quali il diritto alla vita, alla salute, all'onore, all'identità personale, a nascere sano, diritti, questi, rispetto ai quali l'avverarsi della condicio iuris della nascita è condizione imprescindibile per la loro azionabilità in giudizio ai fini risarcitori. Ne consegue la legittimazione del nato disabile (a causa di condotta colposa del sanitario fonte dell'evento di danno) ad agire per il risarcimento di un danno le cui premesse fattuali sono collocate in epoca anteriore alla sua stessa nascita. Una volta accertata l'esistenza di un rapporto di causalità tra un comportamento colposo, anche anteriore alla nascita, ed il danno che ne sia derivato al soggetto che con la nascita abbia acquistato la personalità giuridica, sorge e deve essere riconosciuto in capo a quest'ultimo il diritto al risarcimento (si veda, ex plurimis: Cass. S.U., n. 25765/2015; per il diritto al risarcimento dei danni subiti da figlio «nato orfano» si veda Cass. III, n. 9700/2011, per la quale anche il soggetto nato dopo la morte del padre naturale, verificatasi per fatto illecito di un terzo durante la gestazione, ha diritto nei confronti del responsabile al risarcimento del danno per la perdita del relativo rapporto e per i pregiudizi di natura non patrimoniale e patrimoniale che gli siano derivati). In applicazione del principio, Cass. III, n. 10741/2009 cit., oltre che la conforme Cass. III, n. 10812/2019, chiarisce che la persona nata con malformazioni congenite, dovute alla colposa somministrazione di farmaci dannosi, nella specie teratogeni, alla propria madre, durante la gestazione, è legittimata a domandare il risarcimento del danno alla salute nei confronti del medico che quei farmaci prescrisse o non sconsigliò. In particolare, la Suprema Corte precisa che con il contratto di ricovero ospedaliero della gestante l'ente ospedaliero si obbliga non soltanto a prestare alla stessa le cure e le attività necessarie al fine di consentirle il parto ma ad effettuare, con la dovuta diligenza, tutte quelle altre prestazioni necessarie al feto (ed al neonato), sì da garantirne la nascita evitandogli – nei limiti consentiti dalla scienza — qualsiasi possibile danno. Detto contratto, intercorso tra la partoriente e l'ente ospedaliero, si atteggia dunque come contratto con effetti protettivi a favore di terzo nei confronti del nato, alla cui tutela tende quell'obbligazione accessoria, ancorché le prestazioni debbano essere assolte, in parte, anteriormente alla nascita. Ne consegue che il soggetto che, con la nascita, acquista la capacità giuridica, può agire per far valere la responsabilità (contrattuale) per l'inadempimento delle obbligazioni accessorie, cui il contraente sia tenuto in forza del contratto stipulato col genitore o con terzi, a garanzia di un suo specifico interesse (si vedano: Cass. III, n. 14488/2004, cit., Cass. III, n. 5881/2000, nonché, per la prima elaborazione del principio nei termini di cui innanzi, Cass. III, n. 11503/1993). Con particolare riferimento alla legittimazione degli altri familiari, la Suprema Corte, chiarisce che gli effetti del contratto debbono essere individuati avendo riguardo anche alla sua funzione sociale, e tenendo conto che la Costituzione antepone, anche in materia contrattuale, gli interessi della persona a quelli patrimoniali. Ne consegue quindi che il contratto stipulato tra una gestante, una struttura sanitaria ed un medico, avente ad oggetto la prestazione di cure finalizzate a garantire il corretto decorso della gravidanza, riverbera, per sua natura, effetti protettivi a vantaggio non solo del nascituro e del nato ma anche del di lui padre, con la conseguente loro legittimazione per il risarcimento danni da inadempimento (ex plurimis, Cass. III, n. 10741/2009, cit.). In applicazione del principio, Cass. III, n. 10741/2009, cit., ha considerato creditori/danneggiati anche il neonato oltre che il di lui padre nonché marito dalla partoriente in forza dei danni cagionati al feto durante la gravidanza da condotta colposa dei medici. Nella specie è stata ritenuta corretta la sentenza che aveva ravvisato la responsabilità della struttura privata presso i cui locali risultava ospitato il «presidio di aiuto materno» ove i sanitari (dipendenti dal Servizio sanitario nazionale) avevano operato. Si è argomentato in forza del principio per il quale la struttura era tenuta a garantire alla gestante, per il semplice fatto del di lei ricovero, la migliore e corretta assistenza, non solo sotto forma di prestazioni di natura alberghiera ma anche di messa a disposizione del proprio apparato organizzativo. In merito al danno risarcibile, infine, rispetto a quanto innanzi già chiarito, Cass. III, n. 3582/2013 ha precisato che sarebbe viziata la motivazione della sentenza che, in fattispecie di colpa medica neonatale, liquidi equitativamente il danno morale del neonato e dei genitori senza riferimento alla gravità del fatto, alle condizioni soggettive della persona, all'entità della sofferenza e del turbamento d'animo, oltre che quella che liquidi, sempre in via equitativa, il danno patrimoniale del neonato con generico riferimento alla chance di futuro lavoro. Motivazioni siffatte renderebbero difatti impossibile il controllo sull'iter logico seguito dal giudice di merito nelle relative quantificazioni. Il danno differenziale e sistema tabellare (cenni)In merito alle specifiche applicazioni del sistema tabellare al risarcimento del danno (c.d. differenziale) da responsabilità medica rileva un recente arresto della Suprema Corte del 2014. Allorché un paziente, già affetto da una situazione di compromissione dell'integrità fisica, sia sottoposto ad un intervento che, per la sua cattiva esecuzione, determini un esito di compromissione ulteriore rispetto alla percentuale che sarebbe comunque residuata anche in caso di ottimale esecuzione dell'intervento stesso, ai fini della liquidazione del danno con il sistema tabellare, deve assumersi come percentuale di invalidità quella effettivamente risultante, alla quale va sottratto quanto monetariamente indicato in tabella per la percentuale di invalidità comunque ineliminabile, e perciò non riconducibile alla responsabilità del sanitario (Cass. III, n. 6341/2014). Nel caso di specie la condotta aveva cagionato un danno rappresentato non dalla perdita dell'integrità fisica dallo 0% al 5% ma dal 5% al 10%. Sicché, il riferimento al valore equivalente ad un'invalidità del 5%, qualora applicato, si sarebbe tradotto nella considerazione di un danno evento diverso da quello effettivamente cagionato. Per converso, come ha precisato la Suprema Corte, si sarebbe dovuto considerare l'equivalente tale da rappresentare, in applicazione delle tabelle di riferimento, la differenza tra il valore dell'invalidità del 10% e quello del 5%. Rilievi di natura processuale (cenni)Conclusivamente necessitano alcuni rilievi di natura processuale connessi alla responsabilità medica, sia in forza della disciplina introdotta dalla recente l. 8 marzo 2017, n. 24, recante disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie, sia al fine di vagliare taluni profili di rilievo interpretativo. La («nuova») responsabilità medica: profili processuali della l. 8 marzo 2017, n. 24 Nel trattare in precedenza circa i «mobili confini» della responsabilità medica sono state vagliate talune norme di carattere sostanziale introdotte dalle nuove recenti disposizioni in materia di responsabilità professionale degli esercenti professioni sanitarie, di cui alla citata l. 8 marzo 2017, n. 24 (in vigore dall'1 aprile 2017). Circa la fase contenziosa, preme in questa sede evidenziare che il (nuovo) tentativo obbligatorio di conciliazione deve esperirsi con le forme della consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione (di cui all'art. 696-bis c.p.c.) e che, nel caso di fallita conciliazione, alla quale è equiparata la non conclusione della procedura nel termine di sei mesi dal deposito del ricorso, la domanda diviene procedibile ed entro novanta giorni deve essere depositato ricorso per procedimento sommario di cognizione ex art. 702-bis c.p.c. (artt. 8-11 della l. n. 24 del 2017). L'art. 12 della l. n. 24 del 2017, in deroga al disposto di cui all'art. 1917 c.c., contempla l'azione diretta del danneggiato nei confronti dell'impresa che abbia stipulato il contratto di assicurazione con la struttura e/o con il medico, di cui all'art. 10 comma 2 della l. n. 24 del 2017 (non risultando però, allo stato, sussistere un obbligo di concludere il contratto di assicurazione in capo alle compagnie assicuratrici). Fatte però sempre salve le disposizioni di cui al precedente art. 8 in merito al tentativo obbligatorio di conciliazione ed essendo la detta azione esperibile solo entro i limiti delle somme per le quali è stato stipulato il contratto di assicurazione. In ipotesi di azione diretta contro l'impresa assicuratrice sono litisconsorti necessari gli assicurati, cioè la struttura o il medico, operando altresì per la detta azione un termine di prescrizione pari a quello dell'azione verso la struttura e/o il medico. Per le nuove disposizioni in tema di azione diretta, come previsto dal comma 6 del citato art. 12, è prevista l'applicabilità a decorrere dall'entrata in vigore del decreto con il quale saranno determinati i requisiti minimi delle polizze assicurative per le strutture sanitarie e sociosanitarie e per gli esercenti le professioni sanitarie (decreto previsto dall'art. 10 comma 6 della l. n. 24 del 2017). In merito, ex art. 10 della legge citata, le strutture devono essere provviste di copertura assicurativa o di altre analoghe misure per la responsabilità civile verso terzi e per la responsabilità civile verso prestatori d'opera, anche per danni cagionati dal personale a qualunque titolo operante presso le dette strutture, compresi coloro che svolgono attività di formazione, aggiornamento nonché di sperimentazione e di ricerca clinica. L'obbligo di cui innanzi opera anche con riferimento alle prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina. Sempre le strutture previste della citata legge devono stipulare polizze assicurative o adottare altere analoghe misure per la copertura della responsabilità civile verso terzi degli esercenti le professioni sanitarie anche ai sensi e per gli effetti delle disposizioni di cui all'art. 7 comma 3 della l. n. 24 del 2017 (ferme restando le disposizioni di cui all'art. 9 della stessa legge). Tali ultime disposizioni, come espressamente previsto dall'art. 10 in esame, non si applicano in relazione agli esercenti la professione sanitaria di cui al successivo comma 2 dell'art. da ultimo citato. Ai sensi di tale secondo comma, però, rimane fermo l'obbligo assicurativo per l'esercente la professione sanitaria che svolga la propria attività al di fuori di una delle strutture di cui alla stessa legge o all'interno di esse ma in regime libero-professionale ovvero che si avvalga delle strutture nell'adempimento della propria obbligazione contrattuale assunta con il cliente/paziente ex art. 7 comma 3 della l. n. 24 del 2017. L'obbligo assicurativo in questione è quello sancito dall'art. 3 comma 5, lett. e, del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 (conv. con modif. in l. n. 14 settembre 2011, n. 148), dall'art. 5 del regolamento di cui al d.P.R. 7 agosto 2012, n. 137, e dall'art. 3 comma 2 del d.l. 13 settembre 2012, n. 158 (conv. con modif. in l. 8 novembre 2012, n. 189). L'estensione della garanzia agli eventi accaduti nei dieci anni antecedenti la conclusione del contratto assicurativo, purché denunciati all'impresa di assicurazione durante la vigenza temporale della polizza, è infine prevista dall'art. 11 della l. n. 24 del 2017, mentre il fondo di garanzia per i danni derivanti da responsabilità sanitaria è contemplato dal successivo art. 14. In sede di primissimi commenti alla citata l. 8 marzo 2017, n. 24, è stata evidenziata la scarsa comprensibilità della disciplina in esame comprese le disposizioni in materia di assicurazione, con particolare riferimento alla mancata disciplina della ritenzione del rischio, dei criteri di riservazione della P.A., della successione fra coperture e la non adeguata trattazione delle varie problematiche legate alla clausola claim made, che si auspica siano avviati in sede di emanazione del decreto ministeriale di cui all'art. 10 della legge citata (Partenza, il quale ritiene lecito interrogarsi circa il senso e l'utilità del complesso elaborato normativo in esame, anche in considerazione dell'«approssimazione terminologica» e della «scarsa comprensione» dei meccanismi di funzionamento del mercato assicurativo, manifestati dal legislatore, tanto da lasciare spazio a disequilibri e dubbi interpretativi, dallo stesso autore evidenziati). Altra dottrina, pur ritenendo l'intervento normativo in esame nel complesso tale da accrescere gli strumenti di tutela per il paziente danneggiato, evidenzia la sussistenza di settori critici con particolare riferimento proprio all'obbligo assicurativo delle strutture, essendo fatta salva la possibilità di ricorrere ad «analoghe misure». L'esercizio di tale facoltà, si sostiene, vanificherebbe, per effetto di una scelta gestionale dell'ente, sia la possibilità di agire con l'azione diretta contro l'assicuratore sia la possibilità di ottenere il risarcimento dal Fondo di garanzia (Gattari). Con riferimento al regime intertemporale dell'introdotto ATP conciliativo, di cui al citato art. 8, la prime giurisprudenza di merito ritiene che trattasi di istituto processuale, come tale, applicabile a tutti i procedimenti azionati successivamente all'entrata in vigore della l. n. 24 del 2017 (1 aprile 2017), a prescindere dall'applicabilità o meno delle disposizioni di natura sostanziale introdotte dalla stessa legge (si veda, Trib. Venezia II, 18 gennaio 2017). Per quanto concerne invece l'individuazione dei soggetti legittimati, con particolare riferimento alle compagnie assicuratrici, si registra invece un attuale contrasto tra i Giudici di merito. Per un primo orientamento, l'individuazione dei soggetti legittimati a partecipare all'ATP deve muovere dal tipo di azione che il danneggiato intenda esperire: legittimati passivi sarebbero quindi la struttura sanitaria o l'esercente la professione sanitaria ovvero entrambi, nel caso di azione esperita exart. 7 della l. n. 24 del 2017; nell'ipotesi di “azione diretta” ex art. 12, legittimata passiva sarebbe anche la compagnia assicuratrice (della struttura o del sanitario ovvero di entrambi). Sicché, in virtù del combinato disposto degli artt. 12, comma 6, e 10, comma 6, della citata legge, fino all'approvazione del decreto ministeriale dettante i requisiti minimi relativi alle polizze assicurative (che, ex art. 10 cit., sarebbe dovuto essere adottato entro 120 giorni dall'entrata in vigore della legge), legittimata passiva non potrà essere anche la compagnia assicuratrice della struttura sanitaria e/o del sanitario (per tale tesi si vedano: Trib. Padova, sez. ric., 27 novembre 2017; Trib. Venezia II, 11 settembre 2017). In senso difforme, si argomenta la legittimazione passiva anche della compagnia assicuratrice (a prescindere dall'entrata in vigore del detto decreto) dallo stesso dettato normativo che, comunque, la qualifica parte del procedimento di ATP, in linea con la funzione conciliativa dell'istituto (si vedano, in tal senso: Trib. Verona III, 31 gennaio 2018, e Trib. Venezia II, 18 gennaio 2018, con nota adesiva di Vaccari, Primi contrasti giurisprudenziali in merito all'ATP introdotto dalla legge Gelli-Bianco, in Ridare.it, 15 marzo 2018). L'art. 9 della citata l. n. 24/2017 disciplina infine l'azione di rivalsa o di responsabilità amministrativa. Nei limiti che qui rilevano, necessita evidenziare che l'azione di rivalsa nei confronti dell'esercente la professione sanitaria può essere esercitata solo in caso di dolo o colpa grave e, se il professionista non è stato parte del giudizio o della procedura stragiudiziale di risarcimento, solo a risarcimento avvenuto (sulla base di titolo giudiziale o stragiudiziale) ed entro un anno dall'avvenuto pagamento (a pena di decadenza). La decisione pronunciata nel giudizio promosso contro la struttura o la compagnia di assicurazione non fa stato nell'azione di rivalsa, se l'esercente non era parte del giudizio, così come la transazione non è mai opponibile all'esercente nel giudizio di rivalsa. In materia di azione di rivalsa e della misura della stessa è intervenuta Cass. III, n. 28987/2019, in fattispecie caratterizzata da domanda risarcitoria per i danni conseguenti a tre interventi chirurgici di mastoplastica, per i quali il Giudice di merito aveva affermato la responsabilità solidale della struttura e del medico. La citata legge n. 24/2017, con riferimento alla rivalsa, supera il problema della recuperabilità totale o parziale della somma versata a titolo di risarcimento, impedendo alla struttura, pubblica o privata, di recuperare un importo “superiore al triplo del maggior reddito” percepito dal sanitario nel triennio, mentre alcuna disposizione è dettata per l'azione di rivalsa nel regime precedente all'entrata in vigore della detta legge.Sicché, conclude la Suprema Corte, nel regime anteriore al 2017, nel rapporto interno tra la struttura sanitaria e il medico, la responsabilità per i danni cagionati da colpa esclusiva di quest'ultimo deve essere ripartita in misura paritaria secondo il criterio presuntivo degli artt. 1298, comma 2, e 2055, comma 3, c.c., in quanto la struttura accetta il rischio connaturato all'utilizzazione di terzi per l'adempimento della propria obbligazione contrattuale, a meno che dimostri un'eccezionale, inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile (e oggettivamente improbabile) devianza del sanitario dal programma condiviso di tutela della salute che è oggetto dell'obbligazione (in senso conforme anche Cass. III, n. 29001/2021). Il foro del consumatore Il particolare modo di atteggiarsi dei rapporti tra paziente e struttura sanitaria rileva anche ai fini dell'applicabilità ad essi della disciplina del consumatore con riferimento alla competenza territoriale. Ai fini dell'applicazione del «foro del consumatore», difatti, è necessario muovere dalla natura del rapporto o della prestazione oggetto dell'attività sanitaria. Salva l'ipotesi particolare di seguito evidenziata, è esclusa l'applicabilità del foro del luogo di residenza del consumatore, di cui all'art. 33 comma 2, lett. u), del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, ai rapporti tra pazienti e strutture ospedaliere, tanto pubbliche quanto private ma operanti in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale. Il principio di cui innanzi si argomenta dalla circostanza per la quale l'assistito può rivolgersi a qualsiasi azienda sanitaria presente sul territorio nazionale, ancorché l'organizzazione sanitaria sia imperniata sul principio di territorialità. Ne consegue che se il rapporto si è svolto al di fuori del luogo di residenza del paziente tale circostanza è frutto di una sua libera scelta, che esclude l'operatività della ratio del citato «foro del consumatore». A ciò si aggiunga che la struttura sanitaria pubblica o in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale non può essere qualificata alla stregua di «imprenditore» o «professionista», non operando per fini di profitto (Cass. III, n. 18536/2016). Nel caso in cui, però, tra l'utente e una struttura sanitaria del Servizio sanitario nazionale (o convenzionata) sia intercorso un vero e proprio contratto avente ad oggetto una prestazione esulante dalle procedure del detto servizio, alla domanda di risarcimento danni derivanti dall'esecuzione della prestazione, introdotta dall'utente contro la struttura sanitaria, si applica il citato art. 33. Sarebbe questo il caso di intervento operatorio eseguito da un medico scelto dal paziente ed operante come libero professionista, sebbene nell'espletamento di attività intramuraria, con addebito all'utente dei costi della prestazione del medico operante e di altri medici della struttura, salvo per una parte minore equivalente al costo aziendale normalmente a carico del detto Servizio sanitario. Ne consegue, per la Suprema Corte, la competenza del giudice del luogo di residenza del consumatore, in quanto, nel rapporto, da considerarsi necessariamente su base unitaria, la struttura sanitaria si è posta nei confronti dell'utente come «professionista». Ai fini dell'applicazione del foro del consumatore diventa quindi necessario muovere dalla natura del rapporto o della prestazione oggetto dell'attività sanitaria, essendo applicabile il detto foro quante volte si riscontri l'idoneità del rapporto concreto ad essere ricondotto sotto le norma del codice del consumo (Cass. III, n. 27391/2014; nello stesso senso, più di recente, Cass. III, 22133/2016). Litisconsorzio tra struttura sanitaria e medico; effetti (processuali) della transazione tra medico e paziente I rapporti tra struttura sanitaria, medico in essa operante e paziente, già analizzati nei paragrafi precedenti, riverberano conseguenze in termini processuali ed in particolare in merito alla configurabilità del litisconsorzio necessario, tra i primi due, con riferimento all'azione di risarcimento danni per responsabilità professionale medica esercitata dal paziente. In merito si registrano nell'attualità due orientamenti di legittimità con collimanti che, però, potrebbero essere ricondotti ad unità in applicazione di principi già elaborati dalla Suprema Corte. Un primo orientamento evidenzia che nel processo a pluralità di parti, instaurato da un paziente per far valere la responsabilità solidale di una casa di cura e del sanitario operante presso di essa, non ricorre un'ipotesi di litisconsorzio necessario passivo, in quanto l'attore, avendo diritto di pretendere da ciascun condebitore il pagamento dell'intera somma dovuta a titolo di risarcimento dei danni subiti, instaura nei loro confronti cause scindibili. Sicché, in applicazione dei principi valevoli per l'obbligazione solidale passiva, la notificazione della sentenza che sia stata eseguita ad istanza della parte attrice nei confronti di uno solo dei convenuti segna esclusivamente nei riguardi dello stesso l'inizio del termine breve ex art. 325 c.p.c. (Cass. III, n. 8413/2014) La tesi in esame muovere in particolare dalla circostanza secondo cui nel processo con pluralità di parti, il principio per il quale la notifica della sentenza eseguita ad istanza di una sola delle parti segna, nei confronti della stessa e della destinataria della notificazione, l'inizio del termine per la proposizione dell'impugnazione contro tutte le altre parti, non è applicabile nel caso in cui si verta in tema di obbligazione solidale passiva. Essa non comporterebbe difatti sul piano processuale l'inscindibilità delle cause e non darebbe luogo a litisconsorzio necessario, in quanto, avendo il creditore titolo per rivalersi per intero nei confronti di ogni debitore, è sempre possibile la scissione del rapporto processuale. Nell'ipotesi di cause scindibili o comunque indipendenti, infine, poiché all'interesse sostanziale di ciascuna parte corrisponde un interesse autonomo all'impugnazione, il termine per proporla non può essere unitario, ma decorre dalla data delle singole notificazioni a ciascuno dei titolari dei diversi rapporti definiti con l'unica sentenza (Cass. III, n. 239/2008). Per converso, altro orientamento ritiene che la domanda di risarcimento del danno proposta da un paziente nei confronti di un medico e dell'Azienda sanitaria pubblica, sua datrice di lavoro, dia vita ad un rapporto processuale inscindibile, con la conseguenza che la notifica della sentenza all'attore, eseguita ad istanza del medico, segna nei confronti della parte destinataria della notificazione l'inizio della decorrenza del termine breve per la proposizione dell'impugnazione anche contro la Asl (Cass. III, n. 676/2012). Sembra potersi ritenere che gli orientamenti di cui innanzi configgano in merito alla considerazione della scindibilità o meno dei rapporti sostanziali dedotti in giudizio, quello tra paziente e casa di cura e quello tra il primo ed il medico. Esso difatti è uno dei presupposti per l'applicabilità del principio più generale, in merito al quale non sembrerebbe allo stato esservi conflitto, per il quale in tema di impugnazioni, nel processo con pluralità di parti, vige la regola dell'unitarietà del termine dell'impugnazione. Sicché la notifica della sentenza eseguita ad istanza di una sola delle parti segna, nei confronti della stessa e della parte destinataria della notificazione, l'inizio della decorrenza del termine breve per la proposizione dell'impugnazione contro tutte le altre parti. Tale principio trova applicazione soltanto nelle ipotesi di cause inscindibili (o tra loro comunque dipendenti) ovvero in quella in cui la controversia concerna un unico rapporto sostanziale o processuale. Per converso, l'unitarietà del termine di impugnazione, non opera nel caso in cui si tratti di cause scindibili o, comunque, tra loro indipendenti, per le quali, in applicazione del combinato disposto degli artt. 326 e 332 c.p.c., è esclusa la necessità del litisconsorzio. In tali ultime ipotesi, quindi, il termine per l'impugnazione non è unico, ma decorre dalla data delle singole notificazioni della sentenza a ciascuno dei titolari dei diversi rapporti definiti con l'unica sentenza, mentre per le altre parti si applica la norma dell'impugnabilità nel termine di cui all'art. 327 c.p.c. (ex plurimis, limitando i riferimenti alle più recenti, Cass. III, n. 2557/2010, che ritiene non operante litisconsorzio necessario nel caso di chiamata in garanzia impropria, Cass. IV, n, 1825/2007). Potrebbe al riguardo sovvenire in aiuto ermeneutico, ai fini di una risoluzione della questione, un principio affermato da altra sentenza di legittimità che, pur avendo ad oggetto l'art. 2055 c.c., pone in risalto circostanze che potrebbero essere ritenute utili anche ai presenti fini. Cass. III, n. 20192/2013, difatti, evidenzia che l'unicità del fatto dannoso, richiesta ex art. 2055 c.c. ai fini della configurabilità della responsabilità solidale degli autori dell'illecito, deve essere intesa in senso non assoluto, bensì relativo. La detta responsabilità ricorrerebbe quindi anche nel caso in cui il fatto dannoso derivasse da più azioni od omissione, dolose o colpose, costituenti fatti illeciti distinti ed in ipotesi anche diversi, sempre che le singole azioni od omissioni, legate da un vincolo di interdipendenza, abbiano concorso in maniera efficiente alla produzione dell'intero danno. Ulteriori argomenti di riflessione potrebbero trarsi dalla considerazione per la quale la responsabilità per attività sanitaria effettuata all'interno di una struttura sanitaria potrebbe derivare da profili strutturali ed organizzativi della struttura stessa (ovvero anche da essi) così come potrebbe fondarsi esclusivamente sulla responsabilità del medico; ciò potrebbe, in ipotesi, essere considerato ai fini della risoluzione della natura dell'eventuale litisconsorzio. Proprio dalla considerazione del possibile diverso fondamento fattuale della responsabilità medica per prestazione resa da struttura sanitaria, la Suprema Corte trae conseguenze di valenza processuale, ancorché non in merito alla risoluzione dello specifico problema di cui innanzi. Cass. III, n. 15860/2015 in particolare ne fa conseguire che nel caso in cui l'azione risarcitoria per responsabilità medica sia esercitata solo con riferimento all'operato del medico, non attingendo profili strutturali e organizzativi della struttura sanitaria nella quale esso abbia operato, la transazione tra medico e danneggiato, con conseguente declaratoria di cessata materia del contendere, impedisce la prosecuzione dell'azione nei confronti della struttura sanitaria. Quest'ultima, difatti, è convenuta in giudizio solo in ragione del rapporto (in ipotesi, di lavoro subordinato) con il professionista, e dunque per fatto altrui. Sicché, precisa la Suprema Corte, la transazione raggiunta tra medico e danneggiato, escludendo la possibilità di accertare e dichiarare la colpa del primo, fa venir meno la responsabilità della struttura, senza che sia neppure possibile invocare il principio della improduttibilità di effetti, nei confronti di condebitori in solido che non dichiarino di volerne profittare, della transazione conclusa con uno dei debitori in solido, ex art. 1304 c.c. In senso sostanzialmente difforme si esprime però Cass. III, n. 26118/2021 per la quale In tema di responsabilità per danni da attività medico-chirurgica, anche quando la domanda risarcitoria si fonda sull'erroneo operato del medico e non sui profili strutturali e organizzativi della struttura sanitaria, la transazione tra medico e danneggiato non impedisce l'esercizio dell'azione per l'accertamento della responsabilità della struttura ospedaliera - che non ha natura di responsabilità per fatto altrui, bensì per fatto proprio e, pertanto, non viene meno in conseguenza della liberazione del medico dalla propria obbligazione risarcitoria -, ma comporta unicamente che, nel compiere detto accertamento, il giudice debba indagare "incidenter tantum" sulla esistenza di una eventuale condotta colposa del sanitario. Mutamento della domanda Altro dubbio interpretativo, derivante dalla struttura della fattispecie di responsabilità medica, inerisce la possibilità da parte dell'attore di allegare, in sede conclusionale ovvero in appello, profili di colpa differenti da quelli allegati in sede di proposizione della domanda giudiziale in primo grado. Al riguardo un primo orientamento di legittimità sostiene che non costituisca inammissibile mutamento della domanda la circostanza che l'attore, dopo avere allegato nell'atto introduttivo che l'errore del sanitario sia consistito nell'imperita esecuzione di un intervento chirurgico, nel concludere alleghi, invece, che l'errore sia consistito nell'inadeguata assistenza postoperatoria. L'ambito dell'indagine deve in particolare essere delineato dal fatto costitutivo ed esso deve rilevare nella sua essenzialità materiale, senza che le specificazioni della condotta, inizialmente allegate dall'attore, possano avere portata preclusiva, attesa la normale mancanza di conoscenze scientifiche da parte del danneggiato. Questa impostazione, in sostanza, consentirebbe di allegare un errore sanitario in sede di azione e di rimproverargliene uno differente in sede conclusionale (Cass. III, n. 13269/2012). Il detto orientamento sembrerebbe non collimante con l'arresto giurisprudenziale in tema di mutamento della domanda, ancorché con riferimento non specifico alla responsabilità medica, in forza del quale, in tema di risarcimento del danno da fatto illecito, l'onere di indicare i fatti costitutivi della pretesa deve essere assolto in modo rigoroso e sin dall'atto di citazione. In particolare, muovendo dall'assunto per il quale il giudizio di risarcimento danni ha ad oggetto un diritto c.d. eterodeterminato i fatti materiali che si assumono lesivi del detto diritto devono essere indicati espressamente ed a pena di nullità per violazione dell'art. 163, n. 4, c.p.c. (Cass. III, n. 17408/2012). Ne consegue inammissibile mutamento della domanda in appello l'allegazione di una dinamica del fatto diversa da quella allegata in primo grado. In un caso in cui l'attore in primo grado aveva allegato di essere stato urtato dal veicolo condotto dal convenuto mentre era in bicicletta mentre, in appello, aveva allegato di essere stato urtato dal suddetto veicolo mentre si trovava a terra, dopo essere caduto dalla bicicletta in conseguenza di un precedente urto infertogli da un terzo, la Suprema Corte, confermando la decisione di merito, in applicazione del principio di cui innanzi ha ritenuto inammissibile tale mutamento della domanda (Cass. III, n. 7540/2000). Tale orientamento argomenta dalla ratio sottesa all'inammissibilità di domande nuove in appello (ma non solo in appello), da individuarsi nel rispetto del contraddittorio. Sicché, si ha domanda nuova, inammissibile in appello, quando i nuovi elementi, dedotti innanzi al giudice di secondo grado, comportino il mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato, modificando l'oggetto sostanziale dell'azione ed i termini della controversia, in modo da porre in essere una pretesa diversa, per la sua intrinseca essenza, da quella fatta valere in primo grado e sulla quale non si è svolto in quella sede il contraddittorio. Nella specie Cass. III, n. 13982/2005 ha ritenuto sussistente un mutamento della causa petendi in un caso in cui, con la citazione, l'attore aveva proposto domanda di risarcimento danni per la presenza di una profonda buca non segnalata, mentre in appello aveva introdotto nuovi elementi fattuali, quali la non visibilità della buca ed il fatto che essa fosse piena d'acqua al momento dell'incidente, che integravano la diversa figura dell'insidia stradale, rispetto all'assunta responsabilità dell'ente proprietario della strada per omessa segnalazione della presenza della buca. Sussisterebbe altresì inammissibile mutatio libelli, in appello, anche nel caso in cui i fatti dedotti in secondo grado, già esposti nell'atto di citazione ma al mero scopo di descrivere ed inquadrare altre circostanze, assumano una differente portata in quanto posti a sostegno di una nuova pretesa, così determinando l'introduzione di un nuovo tema di indagine e di decisione. Nella specie, il Commissario liquidatore di una società di capitali in l.c.a., in primo grado, aveva chiesto la condanna di una banca al risarcimento dei danni da responsabilità extracontrattuale cagionati con il rilascio di documentazione attestante l'avvenuto versamento dell'aumento di capitale effettuato dalla società in bonis e, in secondo grado, aveva invece chiesto fosse accertata la responsabilità contrattuale della banca per violazione degli obblighi derivanti dalla stipula di un contratto di conto corrente bancario, al quale aveva fatto riferimento nella citazione. La Suprema Corte, in applicazione del succitato principio, ha confermato la sentenza di merito che aveva dichiarato inammissibile, perché nuova, la domanda proposta in sede di gravame (Cass. I, n. 22473/2004). A fortiori, le regole di cui innanzi varrebbero qualora il mutamento in appello vertesse sulla tipologia della condotta che si assume quale causa del danno (per responsabilità extracontrattuale), in particolare qualora si passasse dal dedurre una condotta omissiva ad allegarne una commissiva e viceversa. In questo caso, difatti, come chiarito dalla Suprema Corte, vi sarebbe deduzione di una nuova causa petendi, ponendosi per la prima volta in discussione un campo di indagine del tutto nuovo rispetto a quello oggetto del primo giudizio (Cass. III, n. 11202/2003; Cass. S.U., n. 12959/1995). Inammissibile mutamento del fatto costitutivo, con riferimento a giudizio di risarcimento danni per diffamazione a mezzo stampa, è stato infine ravvisato nell'allegazione, per la prima volta in grado di appello, di aspetti offensivi dello scritto non dedotti in primo grado, tra i quali, esemplificativamente, la forma, il titolo ed il contenuto (Cass. III, n. 14235/2000). Verosimilmente il contrasto di cui innanzi potrebbe essere risolto considerando adeguatamente le peculiarità della responsabilità medica, in particolare, ed invero della responsabilità nelle professioni tecniche, in generale. Potrebbero così individuarsi, sempre in relazione alle circostanze del caso concreto, limiti di un «mutamento di allegazioni» ammissibile in quanto in linea con i criteri governanti il riparto dell'onere probatorio e, quindi, il principio del contraddittorio, in un'ottica di salvaguardia dei fondamentali valori costituzionali del diritto di difesa e del giusto processo (artt. 24 e 111 Cost.). Ai detti fini potrebbe infatti rilevare che, nell'attualità, la negligenza è intesa non solo come mera disattenzione bensì quale violazione anche di regole sociali, l'imprudenza rileva invece quale violazione delle modalità imposte anche dalle regole sociali per l'espletamento di certe attività mentre l'imperizia è intesa in termini di violazione delle regole tecniche di settori determinati della vita di relazione e non solo quale mera insufficiente attitudine all'esercizio di arti e professioni (Cass. III, n. 9471/2004, cit.). Sicché, pur gravando sull'attore l'onere di allegare i profili concreti di colpa medica posti a fondamento della proposta azione risarcitoria, comprese le linee guida che si assumano violate, tale onere potrebbe non doversi spingere fino alla necessità di enucleazione e indicazione di specifici e peculiari aspetti tecnici di responsabilità professionale, conosciuti e conoscibili soltanto agli esperti del settore tecnico di riferimento. Si finirebbe altrimenti, nella sostanza, per sovvertire, perlomeno con riferimento alla responsabilità medica, il principio della vicinanza della prova ed in particolare per disapplicare o, peggio, applicare in senso inverso il criterio che se ne pone alla base (con lesione dei suddetti valori di rango anche costituzionale). Ponendo tali considerazioni in relazione alla tematica del mutamento della domanda, potrebbe ritenersi sufficiente la contestazione dell'aspetto colposo dell'attività medica secondo quelle che si ritengono essere, in un dato momento storico, le cognizioni ordinarie di un non – professionista che, espletando la professione di avvocato, conosca comunque (o debba conoscere) l'attuale stato dei profili di responsabilità del sanitario, sotto i profili della negligenza, imprudenza ed imperizia. Tra i detti profili di responsabilità si annoverano anche, esemplificativamente: l'omessa informazione sulle possibili conseguenze dell'intervento; l'adozione di tecniche non sperimentate in sede di protocolli ufficiali e la mancata conoscenza dell'evoluzione della metodica interventistica (in questo senso si veda Cass. III, n. 9471/2004, cit.). Potrebbe quindi ritenersi, in definitiva, che i detti profili, in quanto «conoscibili» e quindi allegabili ab origine da parte dell'attore (ovviamente con il supporto tecnico del professionista legale), se mutati successivamente (cioè in sede conclusionale ed a fortiori in appello) implicherebbero mutamento inammissibile in quanto lesivo del principio del contraddittorio e, quindi, anche dei principi e valori costituzionali del diritto di difesa e del giusto processo (artt. 24 e 111 Cost.). Parimenti ciò potrebbe ritenersi avvenire nel caso di mutamento dei fatti costitutivi della pretesa sostanziale dedotta in giudizio mediante allegazione di condotta omissiva in luogo della già allegata condotta commissiva e viceversa ovvero di allegazione di elementi fattuali della condotta (commissiva od omissiva) relativi ad un momento (anche temporalmente) sensibilmente differente da quello oggetto di precedente allegazione. Sempre che, però, la distinzione tra condotte e momenti sia ab origine percepibile e, quindi allegabile, in forza delle conoscenze non tecniche dell'attore (ancorché supportato dal professionista legale). Quanto detto varrebbe non solo nel caso in cui si agisca deducendo una responsabilità extracontrattuale ma, a maggior ragione, qualora si agisca facendo valere una responsabilità contrattuale, proprio in virtù di quanto evidenziato in tema di riparto dell'onere probatorio e della necessità di non disapplicare il criterio che si pone alla base del principio generale della «vicinanza della prova», per poi applicarlo addirittura in senso inverso. Il profilo problematico potrebbe infine subire dei sostanziali ridimensionamenti in ragione della sempre maggiore espansione della valenza, anche legale, delle linee guida, dei processi e meccanismi inerenti la loro elaborazione oltre che dei veicoli di conoscibilità delle stesse (come anche previsti dalla recente l. 8 marzo 2017, n. 24 inerente anche la disciplina della responsabilità nella professione sanitaria). Fermo restando che, comunque, la domanda deve descrivere in modo concreto i pregiudizi dei quali si chiede il ristoro, senza limitarsi a formule generiche, come la richiesta di risarcimento dei «danni subiti e subendi», in quanto tali domande, quando non nulle ex art. 164 c.p.c., non obbligano il giudice a provvedere sul risarcimento di danni che siano concretamente descritti solo in corso di causa (Cass. III, n. 13328/2015, cit.). Questo percorso sembrerebbe poter recuperare la compatibilità di sistema con quanto di recente ribadito dalla Suprema Corte per cui, nel giudizio di risarcimento del danno derivato da colpa medica non costituisce inammissibile mutamento della domanda la circostanza che l'attore, dopo avere allegato nell'atto introduttivo che l'errore del sanitario sia consistito nell'imperita esecuzione di un intervento chirurgico, nel concludere alleghi, invece, che l'errore sia consistito nell'inadeguata assistenza postoperatoria. Si deve difatti considerare il fatto costitutivo, idoneo a delimitare l'ambito dell'indagine, nella sua essenzialità materiale, senza che le specificazioni della condotta, inizialmente indicate dall'attore, possano avere portata preclusiva, stante l'inesigibilità dell'individuazione ex ante di specifici elementi tecnico-scientifici, di norma acquisibili solo all'esito dell'istruttoria e dell'espletamento di una c.t.u. Ne è conseguito, per Cass. III, n. 10901/2024, in una fattispecie di decesso di un paziente dovuto a shock settico conseguito ad una lesione intestinale, il rigetto dei motivi di ricorso con cui si censurava la sentenza d'appello per aver basato il giudizio di responsabilità su un fatto diverso, sia rispetto a quello posto a fondamento della condanna in primo grado - diversamente individuando l'errore di esecuzione dell'intervento, nonostante la mancanza di appello incidentale sul punto - sia riguardo a quello dedotto con l'atto di citazione, individuando ulteriori profili di responsabilità nella mancata applicazione di drenaggi, dedotta da parte attrice solo in comparsa conclusionale, e nell'omessa vigilanza post-operatoria, rilevata solo con l'appello incidentale. Giudicato, limiti e poteri del giudice di rinvio La descritta autonomia tra il diritto al consenso informato al trattamento sanitario, fondante sul diritto costituzionalmente garantito all'autodeterminazione, e la tutela della salute (anche essa di rango costituzionale), che si atteggia nei termini già ampiamente evidenziati nei paragrafi precedenti, implica ripercussioni in tema di limiti del giudicato. Viene quindi nuovamente in considerazione, questa volta sul versante processuale, l'autonomo rilievo che nel rapporto tra medico e paziente assume la violazione del dovere di informare il paziente in merito al trattamento sanitario, a prescindere dalla correttezza o meno del trattamento sanitario eseguito o dalla prova che il danneggiato avrebbe rifiutato l'intervento se adeguatamente informato. Da ciò consegue difatti che nel caso in cui la sentenza di primo grado abbia accertato la sussistenza della responsabilità professionale del medico (e/o della struttura sanitaria) sia per l'inesatta esecuzione della prestazione sanitaria, sia per la mancata acquisizione del consenso informato, l'omessa impugnazione della statuizione relativa all'accertata violazione del diritto all'autodeterminazione del paziente comporta il suo passaggio in giudicato (Cass. III, n. 14642/2015). I rapporti tra giudicato e poteri del giudice di rinvio sono poi analizzati dalla Suprema Corte in maniera specifica con riferimento alla responsabilità medica. Tale indagine è avvenuta con riferimento ad un caso nel quale il giudice del rinvio, poiché era stata accertata con efficacia di giudicato (stante il rigetto, in sede di legittimità, del relativo motivo di ricorso) l'esistenza del nesso causale tra l'omessa esecuzione di un parto cesareo ed i danni subìti dal nascituro, aveva anche ritenuto di trarre indicazioni dalla sentenza rescindente per stabilire se la struttura sanitaria avesse adempiuto all'onere di provare l'assenza di colpa dalla propria prestazione. Cass. III, n. 13358/2014, nella specie, ha cassato la sentenza chiarendo che il giudice del rinvio, al quale sia stata demandata una valutazione da compiere sulla base delle risultanze istruttorie acquisite nelle fasi di merito, non può trarre indicazioni – al riguardo – dalla stessa sentenza di annullamento, la cui interpretazione incontra i limiti istituzionali propri del sindacato di legittimità, che escludono per la Suprema Corte ogni potere di valutazione delle prove. Nel corso del 2019, con plurime statuizioni, la Suprema Corte ha chiarito i rapporti tra l'annullamento della sentenza penale, a soli effetti civili, e le regole informanti il successivo processo civile di riassunzione ex art. 622 c.p.p., anche con riferimento ad ipotesi di responsabilità professionale del sanitario. Cass. III, n. 15859/2019 , ha difatti precisato che nel giudizio civile di rinvio ex art. 622 c.p.p., si determina una piena translatio del giudizio sulla domanda civile, sicché la Corte di appello civile competente per valore, cui la Cassazione in sede penale abbia rimesso il procedimento ai soli effetti civili, applica le regole processuali e probatorie proprie del processo civile e, conseguentemente, adotta, in tema di nesso eziologico tra condotta ed evento di danno, il criterio causale del "più probabile che non" e non quello penalistico dell'alto grado di probabilità logica, anche a prescindere dalle contrarie indicazioni eventualmente contenute nella sentenza penale di rinvio. Per Cass. III, 16916/2019, da quanto innanzi consegue altresì che non è consentita, nel detto giudizio di rinvio, l'"utilizzazione", alla stregua di una testimonianza, delle dichiarazioni rese dalla persona offesa sentita quale testimone nel corso del processo penale, dovendo trovare applicazione, viceversa, il divieto sancito dall'art. 246 c.p.c. di assumere come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che ne potrebbe legittimare la partecipazione al giudizio, fermo restando che le medesime dichiarazioni, potendo costituire fonte di convincimento ai fini della decisione, sono liberamente valutabili dal giudice, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti nell'ambito delle complessive risultanze istruttorie. In senso difforme si era invece in precedenza pronunciata Cass. III, n. 13068/2004, per la quale la parte civile può legittimamente rendere testimonianza nel processo penale, non esistendo all'interno del processo penale una norma come l'art. 246 c.p.c., e tale testimonianza può essere sottoposta al cauto e motivato apprezzamento del giudice, che può fondare la sentenza di condanna anche soltanto su di essa. Tale testimonianza conserva il suo valore anche quando, con l'accoglimento del ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell'imputato, il solo processo civile prosegua dinanzi al giudice di rinvio, ex art. 622 c.p.p., giacché in tal caso continuano ad applicarsi, in parte qua, le regole proprie del processo penale e la deposizione giurata della parte civile, ormai definitivamente acquisita, deve essere esaminata dal giudice di rinvio esattamente come avrebbe dovuto esaminarla il giudice penale se le due azioni non si fossero occasionalmente separate. Qualora la parte civile abbia infruttuosamente esercitato l'azione civile in sede penale, nel giudizio di rinvio disposto dal giudice di legittimità ai sensi dell'art. 622 c.p.p. in seguito ad annullamento della sentenza penale per i soli effetti civili, il contenuto della domanda della parte civile non può essere ridotto o ampliato, né il giudice del rinvio può ammettere domande nuove volte ad ottenere la liquidazione del danno, ove in sede penale la parte civile abbia chiesto solamente una condanna generica, al di fuori dell'ipotesi di cui all'art. 539 c.p.p., riflettente la fattispecie di cui all'art. 278 c.p.c. relativa alla pronuncia non definitiva con riserva al prosieguo per la liquidazione dei danni. Nei termini di cui innanzi Cass. III, n. 25918/2019 per la quale, ove però l'azione civile sia stata esercitata in un processo penale per un reato solo doloso nel giudizio civile di rinvio ai sensi dell'art. 622 c.p.p., in relazione alla responsabilità ex art. 2043 c.c. o ex art. 2049 c.c., può essere fatto valere il diverso elemento soggettivo della colpa, il quale nell'illecito civile, a differenza che per i delitti, è perfettamente fungibile con quello del dolo. In applicazione del principio, la detta Suprema Corte ha confermato la decisione con la quale il giudice del rinvio ex art. 622 c.p.p. aveva ritenuto sussistente la responsabilità civile di un direttore di banca per non avere vigilato sul dipendente della propria filiale che, delegato dalle vittime, aveva emesso e incassato numerosi assegni circolari e bancari di ingente importo privi di bene fondi e in assenza di provvista sul conto corrente delle deleganti, nonostante il giudice penale ne avesse escluso la responsabilità a titolo di concorso nel reato di appropriazione indebita per assenza del dolo. Ulteriore conferma dell'impostazione di cui innanzi proviene, proprio con riferimento alla materia che ci occupa, da Cass. III, n. 25917/2019. Nel giudizio civile di rinvio ex art. 622 c.p.p. si determina una piena "translatio" del giudizio sulla domanda civile, sicché la Corte di appello civile competente per valore, cui la Cassazione in sede penale abbia rimesso il procedimento ai soli effetti civili, ai fini della valutazione dell'elemento soggettivo e oggettivo dell'illecito ex art. 2043 c.c., applica i criteri di accertamento della responsabilità civile, i quali non sono sovrapponibili ai più rigorosi canoni di valutazione penalistici, funzionali all'esercizio della potestà punitiva statale. Nella specie, la Suprema Corte ha confermato la pronuncia della corte d'appello adita, quale giudice del rinvio, a seguito della cassazione, su ricorso delle parti civili, della sentenza di assoluzione di un medico imputato di omicidio colposo per avere prematuramente dimesso un paziente operato alla mano e deceduto per emorragia interna che, rivalutando il fatto dal punto di vista civilistico, aveva ritenuto provata la grave negligenza del sanitario consistita nell'incompleta, imprudente e imperita valutazione del complesso quadro clinico in cui versava la vittima in quanto tossicodipendente e affetta da gravi patologie. 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